
Arc. 389: Mosaico del primo Parlamento del Regno d’Italia: Camera dei Deputati. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1861 ca.

Arc. 1937: Mosaico del primo Parlamento del Regno d’Italia: Senato del Regno. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1861 ca.

Arc. 2744: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fu ministro del Regno di Sardegna dal 1850 al 1852, presidente del Consiglio dei ministri dal 1852 al 1859 e dal 1860 al 1861. Nello stesso 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, divenne il primo presidente del Consiglio dei ministri del nuovo Stato e morì ricoprendo tale carica. Fu protagonista del Risorgimento come sostenitore delle idee liberali, del progresso civile ed economico, dell’anticlericalismo, dei movimenti nazionali e dell’espansionismo del Regno di Sardegna ai danni dell’Austria e degli stati italiani preunitari. In economia promosse il libero scambio, i grandi investimenti industriali (soprattutto in campo ferroviario) e la cooperazione fra pubblico e privato. In politica sostenne la promulgazione e la difesa dello Statuto Albertino. Capo della cosiddetta Destra storica, siglò un accordo (Connubio) con la Sinistra con la quale realizzò diverse riforme. Contrastò apertamente le idee repubblicane di Giuseppe Mazzini e spesso si trovò in urto con Giuseppe Garibaldi, della cui azione temeva il potenziale rivoluzionario. In politica estera coltivò con abilità l’alleanza con la Francia grazie alla quale, con la seconda guerra di indipendenza, ottenne l’espansione territoriale del Regno di Sardegna in Lombardia. Benché non avesse un disegno preordinato di unità nazionale, riuscì a gestire gli eventi politici (sommosse nel Granducato di Toscana, nei ducati di Modena e Parma e nel Regno delle Due Sicilie) che assieme all’impresa dei Mille portarono alla formazione del Regno d’Italia. Fotografia CDV. Fotografo: Mayer & Pierson – Parigi. 1859 ca.
Onorificenze
Cavour ottenne numerose onorificenze, anche straniere. Queste quelle di cui si è a conoscenza da fonti attendibili:
 |
Cavaliere dell’Ordine supremo della Santissima Annunziata |
|
— 29 aprile 1856 |
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 26 marzo 1853 |
 |
Cavaliere dell’Ordine civile di Savoia |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine imperiale di Sant’Alessandr Nevskij (Russia) |
|
|
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine della Legion d’onore (Francia) |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine di Carlo III (Spagna) |
|
|
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine di Leopoldo (Belgio) |
|
|
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine del Salvatore (Grecia) |
|
|
 |
Cavaliere di I classe dell’Ordine di Medjidié (Impero Ottomano) |
|
|
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine Reale Guelfo (Gran Bretagna e Hannover) |
|
|
 |
Cavaliere di grande stella dell’Ordine del leone e del sole (Persia) |

Arc. 627: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: H. Hering – Londra.

Arc. 538: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 1529: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV da incisione. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 1210: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: Mayer & Pierson – Parigi.

Arc. 1211: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: Disderi & C.ie – Parigi.

Arc. 1211: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 751: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 751: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV da incisione. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 1041: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 914: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 2723: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861). Fotografia CDV. Fotografo: E. Di Chanaz – Torino.

Arc. 1673: Il Congresso di Parigi si riunì nella capitale francese dal 25 febbraio al 16 aprile 1856 al fine di ristabilire la pace dopo la guerra di Crimea, combattuta vittoriosamente da Turchia, Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna contro la Russia. Il congresso stabilì l’autonomia di Moldavia e Valacchia che, liberate dal protettorato russo, rimanevano formalmente nell’Impero ottomano, al quale veniva anche assicurata l’integrità territoriale. Dispose la smilitarizzazione del Mar Nero e la cessione da parte della Russia della zona della foce del Danubio (Bessarabia meridionale) a favore della Moldavia. Determinò il declino della potenza russa in Europa e l’ascesa della Francia a prima potenza del continente. Il Primo ministro del Regno di Sardegna Cavour ottenne che per la prima volta in una sede internazionale si ponesse la questione italiana. I risultati del Congresso costituirono il Trattato di Parigi. In piedi da sinistra: Camillo Benso conte di Cavour (Regno di Sardegna), Ministro Villamarina (Regno di Sardegna), conte di Hatzfeldt (Austria-Ungheria), F. Bénedetti (Impero francese – redattore del protocollo), Mehemmed Djemil Bey ( Impero turco), barone De Brunnow (Prussia), barone De Manteuffel (Prussia), conte De Buol (Austria-Ungheria). Seduti da sinistra: barone de Hubner (Prussia), Aali Pacha (Impero turco), conte De Clarendon (Gran Bretagna), conte Colonna Walewski (Impero francese), conte Orloff (Impero russo), barone De Bourqueney (Impero francese), Lord Cowley (Gran Bretagna). Fotografia CDV. Fotografo: Mayer & Pierson – Parigi. 1856 ca.

Arc. 1210: Massimo Taparelli marchese d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866). Quartogenito del marchese Cesare Taparelli d’Azeglio; dopo una brillante giovinezza, dedita soprattutto allo studio della pittura (1820–30 a Roma), frequentò nel 1831 a Milano il cenacolo del Manzoni, del quale sposò la figlia Giulia. Di questi anni sono i suoi romanzi (Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta, 1833, Niccolò de’ Lapi ovvero I Palleschi e i Piagnoni, 1841; La Lega Lombarda, incompiuto, scritto nel 1845 e pubblicato postumo nel 1871). Sviluppatasi negli anni 1843–44, attraverso colloqui col cugino Cesare Balbo, la passione politica, accettò nel 1845 di fare per il movimento liberale un viaggio per le Romagne, le Marche e la Toscana e al ritorno scrisse Gli ultimi casi di Romagna (1846), pagine ostili alle sètte ma ancor più al malgoverno papale, e auspicanti apertamente una cospirazione pubblica. Espulso dal governo toscano per tale opuscolo, d’A. all’avvento di Pio IX vide possibile la realizzazione del proprio programma liberale moderato e legalitario (nel 1847espose il suo pensiero nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana), puntando decisamente prima su Pio IX e poi su Carlo Alberto. Scoppiata la guerra, fu aiutante di campo del gen. Durando e fu ferito al monte Berico (10 giugno 1848). In acre polemica con democratici e repubblicani da lui incolpati del fallimento della guerra del 1848–49, declinò l’invito di formare il ministero piemontese: solo il 7 maggio 1849s’inchinò davanti all’ordine preciso del re. Chiusa la vertenza austriaca (a tal fine fu costretto a sciogliere la Camera), d’Azeglio seppe mantenere, nonostante le pressioni austriache, il sistema costituzionale e riformò radicalmente (1850) i rapporti fra Stato e Chiesa con le leggi Siccardi. Dimessosi il 22 ottobre 1852 per le difficoltà suscitategli dal “connubio” Cavour-Rattazzi, ebbe in seguito incarichi politici di minore importanza (nel novembre 1855 accompagnò il re a Londra e a Parigi, dove ritornò da solo prima della guerra; nel 1859 fu nominato commissario straordinario nelle Romagne, nel gennaio 1860 governatore di Milano), mentre i suoi scritti agivano vitalmente sull’opinione pubblica (articoli antiaustriaci sul Morning Chronicle, 1859, De la politique et du droit chrétien au point de vue de la question italienne, 1860); in questi anni, dimenticando ogni precedente dissidio, aiutò il Cavour in momenti delicati (intervento in Crimea, guerra del 1859), ma successivamente il suo moralismo conservatore e paternalistico gli impedì di cogliere il significato degli avvenimenti che si compirono nel 1860 e negli anni seguenti, così si oppose all’unificazione del nord al sud della penisola, giudicandola immatura, e si scagliò, nell’opuscolo Questioni urgenti (1861), contro la prospettiva di portare la capitale a Roma, vedendo in essa un motivo esclusivamente retorico. Solitario e incompreso, d’A. allora scrisse per gl’Italiani, “ancora da fare”, I miei ricordi (incompiuti, si fermano al 1846, pubblicati postumi nel 1867). Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1865 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 12 giugno 1856 |
 |
Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia |
|
|
 |
Medaglia d’Argento al Valor Militare |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di San Giuseppe (Granducato di Toscana) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine di Leopoldo (Belgio) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Legion d’onore (Francia) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Salvatore (Regno di Grecia) |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine del Cristo (Regno del Portogallo) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dell’Immacolata Concezione di Vila Viçosa (Regno del Portogallo) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Leone dei Paesi Bassi (Paesi Bassi) |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine di Carlo III (Spagna) |
|
|

Arc. 2121: Massimo Taparelli marchese d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866). Fotografia CDV. Fotografo: A. Giroux & C. – Parigi. 1865 ca.

Arc. 1658: Massimo Taparelli marchese d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866). Fotografia CDV. Fotografo: Disderi & C.ie – Parigi.

Arc. 385: Massimo Taparelli marchese d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866). Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze.

Arc. 1936: Urbano Rattazzi (Alessandria, 30 giugno 1808 – Frosinone, 5 giugno 1873). Esponente di spicco e successivamente capo dell’ala democratica (Sinistra storica) del Parlamento Subalpino e, successivamente, italiano, ricoprì numerosi incarichi ministeriali tra il 1848 e il 1849 nel Governo Casati, nel Governo Gioberti e nel Governo Chiodo. Passato all’opposizione, nel 1852 strinse un patto politico (Connubio) con l’ala moderata della Destra storica, guidata da Cavour, che permise a questi di divenire primo ministro, e a Rattazzi di assumere lo scranno prima di Presidente della Camera dei deputati, e poi la carica di ministro della Giustizia e dell’Interno. Dopo la rottura con Cavour, Rattazzi si accostò sempre più a Vittorio Emanuele II, divenendo un suo uomo di fiducia, e contrapponendosi in tal modo alla politica del conte. Scomparso Cavour e salito al potere Bettino Ricasoli, nel 1862 Rattazzi riuscì a sostituirlo e a divenire Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia, ma la sua esperienza governativa si concluse brevemente dopo la Giornata d’Aspromonte, la quale, mal gestita, portò alle sue dimissioni. Ritornato al governo nel 1867, sempre succedendo a Ricasoli, Rattazzi cadde nuovamente dopo una breve permanenza al governo del Paese sempre per non aver saputo gestire la Questione romana, i cui esiti disastrosi porteranno alla Battaglia di Mentana. Questa disfatta segnerà le sue ennesime dimissioni e il ritiro definitivo dalla scena politica. Fotografia CDV – Carta salata. Fotografo: Sconosciuto. Databile verso la metà degli anni ’50. Il 3 febbraio 1863 Urbano Rattazzi sposò a Torino Maria Wyse Bonaparte (1833-1902), vedova del conte Frederic Joseph de Solms. Maria era figlia di Thomas Wyse, diplomatico di origine irlandese , e di Letizia Cristina Bonaparte, figlia di Luciano, fratello dell’imperatore francese Napoleone. Dalla coppia nacque una figlia, Isabella Roma, nata il 21 gennaio 1871, che dopo la morte del padre due anni dopo, seguì la madre in Francia e in Spagna. L’eredità politica di Rattazzi sarebbe stata raccolta dal nipote omonimo, Urbano Rattazzi iuniore, figlio di suo fratello Giacomo, che sarebbe divenuto molto vicino a Casa Savoia durante il regno di Umberto I, fino al punto di venire nominato Ministro della Real Casa, a testimoniare i buoni rapporti tra la monarchia e la famiglia Rattazzi. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1859 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
1867 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
1867 |

Arc. 1217: Urbano Rattazzi (Alessandria, 30 giugno 1808 – Frosinone, 5 giugno 1873). Fotografia CDV. Fotografo: Boglioni – Torino. 1860 ca.

Arc. 539: Urbano Rattazzi (Alessandria, 30 giugno 1808 – Frosinone, 5 giugno 1873). Fotografia CDV. Fotografo: Detken – Napoli. 1860 ca.

Arc. 2414: Urbano Rattazzi e la moglie Maria Wyse Bonaparte (1833 – 1902) il 3 febbraio 1863 a Torino, giorno del loro matrimonio. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1863.

Arc. 1434: Urbano Rattazzi (Alessandria, 30 giugno 1808 – Frosinone, 5 giugno 1873). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1868 ca.

Arc. 392: Urbano Rattazzi (Alessandria, 30 giugno 1808 – Frosinone, 5 giugno 1873). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1868 ca.

Arc. 539: Barone Bettino Ricasoli ( Firenze, 9 marzo 1809 – Castello di Brolio, 23 ottobre 1880). Membro dell’Accademia dei georgofili (1834), nutrì fin da giovane interessi scientifici e dal 1838 si dedicò al miglioramento delle tecniche agricole nei suoi possedimenti di Brolio. Legato agli ambienti del liberalismo moderato toscano, nel febbr. 1846 fu tra i firmatari di un memoriale indirizzato al granduca Leopoldo II per esortarlo alle riforme; l’anno successivo fondò a Firenze, insieme a V. Salvagnoli e R. Lambruschini, il giornale La Patria. Avversario di F. D. Guerrazzi, dopo i moti del 1848–49 fu favorevole al ritorno del granduca ma, deluso dal ricorso di quest’ultimo all’esercito austriaco, si ritirò dalla vita politica, dedicandosi all’amministrazione delle sue terre. Nel 1859, dopo la fuga del granduca, Ricasoli accettò la carica di ministro dell’Interno nel governo creato dal commissario straordinario C. Boncompagni e fondò il quotidiano La Nazione. Dopo l’armistizio di Villafranca e il ritiro di Boncompagni, assunse il potere e portò a compimento l’annessione della Toscana al regno di Vittorio Emanuele II. Capo della maggioranza parlamentare del nuovo regno d’Italia, alla morte di Cavour divenne presidente del Consiglio (1861), ricoprendo anche la carica di ministro degli Esteri e, dopo le dimissioni di Minghetti, quella di ministro degli Interni. Alla guida del governo si impegnò a combattere il brigantaggio e cercò di risolvere pacificamente la questione romana, a suo giudizio strettamente legata a un rinnovamento spirituale della Chiesa. A questo scopo riprese le trattative con la Francia, proponendo al governo di Parigi di farsi mediatore di una conciliazione tra l’Italia e il papato. Inviso al re, favorevole ad affrontare prima la questione del Veneto, e attaccato dai conservatori più estremi per la sua tolleranza verso le associazioni democratiche, nel marzo 1862 si dimise. Ritornato al potere nel giugno 1866, a guerra già dichiarata all’Austria, lottò senza successo per avere il Trentino e per eliminare l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia tramite la Francia. Nel 1867 riprese la sua politica di pacificazione con il papato e promosse un progetto di legge sulla libertà della Chiesa e la liquidazione dell’asse ecclesiastico, basato sul principio della separazione tra Chiesa e Stato. Criticato sia dai laici sia dai clericali, si dimise nell’aprile del 1867. Rimasto fedele al suo programma, nel 1871 appoggiò in parlamento l’approvazione della legge delle guarentigie. Fotografia CDV. Fotografo: A. Meylan – Torino. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 1860 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 1860 |
 |
Cavaliere dell’Ordine di San Giuseppe |
|
|

Arc. 1050: Barone Bettino Ricasoli ( Firenze, 9 marzo 1809 – Castello di Brolio, 23 ottobre 1880). Fotografia CDV. Fotografo: G. Borgiotti – Firenze. 1860 ca.

Arc. 1935: Marco Minghetti (Bologna, 8 novembre 1818 – Roma, 10 dicembre 1886). Dal 1832 soggiornò con la madre a Parigi; tornato a Bologna e datosi agli studi scientifici e letterari, intervenne nel 1839 al primo congresso degli scienziati a Pisa e, attraverso frequenti viaggi in Italia e all’estero, allargò i propri orizzonti culturali. Nel giugno 1846 fu tra quanti chiesero al conclave riunito a Roma, da cui sarebbe uscito papa Pio IX, riforme amministrative e politiche. Nel 1847 fece parte, a Roma della Consulta di stato; fu ministro dei Lavori pubblici nel primo ministero aperto alla partecipazione dei laici (10 marzo 1848), che si dimise dopo il ritiro dalla guerra del contingente pontificio (allocuzione del 29aprile). Eletto deputato (18 maggio), si dimise dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi e si recò in Piemonte. Ritornato a Bologna dopo la disfatta di Novara, si occupò unicamente di studi letterari ed economici. Conobbe Cavour nel 1852 e per lui compilò nel 1856 un memoriale sullo stato dell’Italia centrale. Chiamato da Cavour a Torino, fu segretario generale al ministero degli Esteri (1859) e, dopo la sollevazione dell’Emilia e della Toscana, alla “direzione degli affari d’Italia”. Dimessosi dopo Villafranca, fu successivamente deputato, ministro dell’Interno (31 dicembre 1860 – 1º settembre 1861), delle Finanze (8 dicembre 1862 – 28 settembre 1864) e presidente del Consiglio (24 marzo 1863 – 28 settembre 1864), carica cui dovette rinunciare per le reazioni negative suscitate dalla convenzione di settembre del 1864. Ministro dell’Agricoltura nel 1869, inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Vienna (agosto 1870), il 10 luglio 1873 ritornò alla presidenza del Consiglio e tenne il portafoglio delle Finanze, nelle quali introdusse abili riforme, e raggiunse il pareggio del bilancio. Battuto alla Camera (marzo 1876), dovette dimettersi e cedere il potere alla Sinistra; da allora fu il capo dell’opposizione parlamentare. Intelligenza prontissima e spirito largamente europeo, Minghetti ebbe un pensiero politico originale, non sempre riconducibile alle posizioni ideologiche della Destra: fu un decentralista convinto e un lucido interprete della politica religiosa di Cavour. Fu socio nazionale dei Lincei dal 1875. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Bernieri – Torino. 1865 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|

Arc. 749: Marco Minghetti (Bologna, 8 novembre 1818 – Roma, 10 dicembre 1886). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 873: Marco Minghetti (Bologna, 8 novembre 1818 – Roma, 10 dicembre 1886). Fotografia CDV. Fotografo:Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 2414: Luigi Federico Menabrea (Chambéry, 4 settembre 1809 – Saint-Cassin, 25 maggio 1896). Figlio dell’avvocato Ottavio Antonio Menabrea e di Margherita Pillet, Luigi Federico Menabrea nacque il 4 settembre 1809 a Chambéry, in Savoia, all’epoca sotto la dominazione napoleonica. Nel 1817, durante il clima della Restaurazione seguito al ritorno della dinastia sabauda sul trono sardo, Luigi Federico iniziò la sua educazione nel collegio dei Gesuiti locale, sotto la guida dell’abate Rendu, futuro vescovo di Annecy, e del dotto Raymond. Appassionato di materie scientifiche, nell’ottobre del 1828 si trasferì a Torino, dove nel si laureò in ingegneria idraulica il 30 giugno 1832, e in architettura civile il 17 gennaio 1833. Divenuto ingegnere e nominato il 26 marzo 1833 motu proprio da re Carlo Alberto di Savoia luogotenente nello stato maggiore del Genio militare, sostituì Cavour nei lavori di fortificazione del forte di Bard, mentre nel 1835 divenne professore di meccanica e costruzioni presso l’Accademia militare. Nonostante i suoi gravosi impegni militari e politici, Menabrea continuò a condurre per tutta la vita una notevole attività scientifica. Allo scoppio della prima guerra d’indipendenza italiana fu inviato nei ducati del centro-Italia a Parma, Piacenza, Modena e Reggio Emilia. Nominato commissario regio presso le truppe pontificie del generale Giovanni Durando, riuscì a mobilitare dalle terre emiliane un contingente costituito da 2200 regolari e 1000 volontari. Il 22 aprile 1859, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza italiana, venne promosso al grado di maggiore generale. Comandante superiore del genio, dal 20 al 30 aprile 1859 progettò e coordinò i lavori di fortificazione lungo la Dora Baltea al fine di impedire l’avanzata delle truppe austriache verso Torino e favorire, nel contempo, il congiungimento dell’esercito francese con quello sardo. Successivamente partecipò come Tenente generale del Corpo del Genio alla campagna di Lombardia (1859) e all’assedio della fortezza di Gaeta (1860). Il 3 ottobre 1860 ricevette l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia. Partecipò anche alla terza guerra di indipendenza in veste di comandante supremo del genio contribuendo alla fortificazione della linea sul Mincio. Consegnò poi al re l’antica Corona Ferrea Lombarda insieme con i risultati del plebiscito delle popolazioni venete. Intimo oramai di Vittorio Emanuele II, il 2 gennaio 1867 ebbe la nomina di primo aiutante di campo del re, ruolo che contribuì a renderlo partecipe della politica personale condotta dal sovrano. Nel 1848 venne eletto deputato, carica che mantenne per sei legislature, fino al 1860, quando (il 29 febbraio) venne nominato senatore del Regno d’Italia, carica che durava a vita, e che quindi mantenne per ben 36 anni. Fu Ministro della Marina nel Governo Ricasoli I (1861-1862) e Ministro dei Lavori Pubblici in quelli Farini e Minghetti I (1862-1864). Alla caduta del secondo ministero Ricasoli nel marzo del 1867, il re avrebbe voluto affidargli l’incarico di procedere alla formazione di un nuovo governo, ma l’improvvisa morte del figlio Ottavio, avvenuta il 5 aprile, indusse Menabrea a declinare il compito, e il governo fu costituito da Urbano Rattazzi. Dopo il disastro di Mentana e sotto la minaccia di uno scontro con la Francia, il 27 ottobre 1867, Vittorio Emanuele II, dopo il fallimento di Enrico Cialdini, chiese a Menabrea di formare un governo che rimase in carica fino al 14 dicembre 1869, a capo di tre gabinetti consecutivi. Fu in questa posizione che si trovò a contrastare i tentativi di Giuseppe Garibaldi di togliere Roma al Papato. Dopo una intensa attività politica, lasciati gli incarichi di governo, Menabrea, che nel 1875 aveva ricevuto il titolo ereditario di marchese di Valdora per i servigi resi nella Seconda Guerra d’Indipendenza, il 4 aprile 1876 venne nominato dal Governo Minghetti II ambasciatore a Londra, dove rimase sei anni, ricevendo stima e apprezzamento come militare e studioso. Successivamente, l’11 novembre 1882 fu nominato ambasciatore italiano a Parigi, città dove rimase per ben dieci anni, finché non ottenne il congedo per motivi d’età. Si ritirò dunque dalla vita pubblica solo nel 1892, quattro anni prima della morte, avvenuta il 25 maggio 1896 a Saint-Cassin, presso la natia Chambéry, ad 86 anni. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. Datata 1864.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 4 novembre 1866 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 6 ottobre 1866 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
— 22 aprile 1868 |
 |
Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 12 giugno 1856 |
 |
Commendatore dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 16 gennaio 1860 |
 |
Grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 3 ottobre 1860 |
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 1º aprile 1861 |
 |
Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia |
|
— 31 gennaio 1857 |
 |
Medaglia d’Oro al Valor Militare |
|
«Per essersi distinto durante l’assedio e presa di Capua del 2 novembre 1860.» — 1º giugno 1861 |
 |
Medaglia d’Argento al valor militare |
|
|
 |
Medaglia Mauriziana per merito militare di 10 lustri |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza (4 barrette) |
|
|
 |
Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere dell’Ordine dei Serafini (Svezia) |
|
— Stoccolma, 20 agosto 1873 |
 |
Cavaliere dell’Ordine Imperiale di Sant’Alexander Nevsky (Impero di Russia) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Salvatore (Grecia) |
|
— Atene, 16 dicembre 1867 |
 |
Gran Cordone dell’Ordine di Leopoldo (Belgio) |
|
— Bruxelles, 26 novembre 1865 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Dannebrog (Danimarca) |
|
— 20 ottobre 1865 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Reale di Santo Stefano d’Ungheria (Impero austro-ungarico) |
|
— 16 aprile 1875 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Imperiale di Leopoldo (Impero austro-ungarico) |
|
— 1º gennaio 1867 |
 |
Cavaliere di Gran Croce della Legion d’Onore (Francia) |
|
— Parigi, 4 maggio 1892 |
 |
Gran Croce dell’Ordine della Torre e della Spada (Portogallo) |
|
— Lisbona, 8 agosto 1867 |
 |
Commendatore di I Classe dell’Ordine Civile di Sassonia (Regno di Sassonia) |
|
— 25 aprile 1850 |
 |
Cavaliere Gran Commendatore dell’Ordine Nichan Iftikar (Tunisia) |
|
— 27 maggio 1867 |
 |
Commendatore dell’Ordine di San Giuseppe (Granducato di Toscana) |
|
— Firenze, 16 ottobre 1849 |
 |
Commendatore dell’Ordine di Carlo III (Spagna) |
|
— Madrid, 10 dicembre 1849 |
 |
Commendatore dell’Ordine del Cristo (Portogallo) |
|
— Lisbona, 21 giugno 1850 |
 |
Ufficiale dell’Ordine delle Palme Accademiche (Francia) |
|
|

Arc. G2: Delegazione italiana a Vienna per il trattato di pace: da sinistra a destra: Capitano di Stato Maggiore Enea Bignami esperto di commercio e ferrovie, Raffaele Abro diplomatico Segretario di Legazione, Tenente Generale Federico Menabrea Ministro Plenipotenziario, Alessandro De Chambonneau Capitano del Genio suo Aiutante di Campo, Isacco Artom Diplomatico Ministro Residente (settembre – ottobre 1866). Fotografia formato 27,4 x 21,2. Fotografo: Angerer – Vienna.
Bignami Enea in gran montura da Capitano di Stato Maggiore ( Bologna, 28 novembre 1819 – Firenze, 17 febbraio 1896): Nato da Paolo e Maddalena Marliani. Compiuti gli studi in Svizzera, si arruolò nella guardia civica bolognese, raggiungendo il grado di capitano. Il 19 marzo 1848 accorse a Milano e qui, arruolatosi volontario in cavalleria, fu assunto quale Ufficiale d’Ordinanza del Generale T. Lechi, comandante la nuova guardia nazionale. Assegnato ai primi di aprile al quartier generale di Carlo Alberto alle dipendenze del Generale Salasco, passò poi allo Stato Maggiore della IV Divisione, comandata da Ferdinando di Savoia, cui si strinse di fraterna amicizia. Sulla partecipazione del Bignami alle campagne del ’48 e del ’49, dove si meritò una menzione onorevole per i fatti d’arme di Sommacampagna (24 luglio 1848) e presso Milano (4 agosto 1848) e una medaglia d’argento, conferitagli a Novara il 23 marzo 1849, esiste, presso il Museo del Risorgimento di Bologna, una interessante documentazione consistente in centotrentuno lettere da lui scritte alla madre, un diario di guerra, numerosi schizzi, relazioni, appunti e disegni. Collocato in aspettativa al termine del conflitto, esaminò le cause della disfatta nel volumetto anonimo, ma posteriormente da lui stesso riconosciuto come suo, Campagnes d’Italie de 1848 – 49 par un Lieutenant d’Etat Major de l’Armée Piémontaise (Turin 1849), in cui espresse giudizi acuti e sereni sui protagonisti grandi e piccoli della guerra. Ritornato a Bologna, si dedicò all’attività finanziaria e, operando in società col Banco R. Rizzoli e quello dei Fratelli Cataldi, impiantò a Bologna una filanda meccanica per la lavorazione della canapa e del lino (giugno 1852); nel 1855 entrò a far parte del “consiglio di sorveglianza” della Società delle miniere zolfuree di Romagna. Durante i suoi frequenti viaggi all’estero, e particolarmente a Parigi, strinse rapporti con ambienti finanziari e politici e le sue lettere agli amici in Italia (E. Marliani, G. Malvezzi, M. Minghetti tra gli altri) rivelano una vasta informazione sui problemi politici internazionali del momento. Oggetto di particolare interesse fu per lui quello ferroviario, di cui divenne uno dei maggiori esperti italiani: sarà membro dell’amministrazione della ferrovia “Vittorio Emanuele” e poi delle Ferrovie dell’Alta Italia. Nel 1859, alla partenza degli Austriaci da Bologna, fu nominato, dalla giunta provvisoria di governo, membro della commissione consultiva di Finanze. Partecipò alla terza guerra d’indipendenza come capitano di Stato Maggiore della divisione di Bologna prima e di Firenze poi; dopo l’armistizio, quale esperto commerciale e ferroviario, accompagnò il plenipotenziario italiano generale L. F. Menabrea a Vienna per le trattative di pace. Nel corso della missione redasse una monografia sui rapporti economici tra Italia e Austria (poi pubblicata in estratto dal Bollettino Consolaredel ministero degli Esteri del 1866), in cui offriva un acuto quadro comparativo delle due economie e propugnava il principio del libero scambio, sull’esempio di quanto già fatto con la Francia e con lo Zollverein tedesco. In questi anni i rapporti del Bignami con gli ambienti finanziari stranieri si intensificarono; in particolare, divenne rappresentante in Italia di A. Rothschild: in questa qualità e come consigliere di amministrazione delle Ferrovie dell’Alta Italia, partecipò nel 1876 alle trattative col governo italiano per la ratifica da parte del Parlamento della convenzione di Basilea stipulata da Minghetti con la Casa Rothschild, relativa alla questione del riscatto da parte dello Stato italiano della Società dell’Alta Italia. Egli mantenne principalmente i rapporti con C. Correnti. Per conto di Rothschild si interessò pure di premere sul governo perché venisse in soccorso al comune di Firenze cui Rothschild aveva fatto grossi prestiti.
Onorificenze
 |
Menzione Onorevole |
|
Sommacampagna – 24 luglio 1848 |
 |
Medaglia d’Argento al valor militare |
|
Milano – 4 agosto 1848 |
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza (1 barretta) |
|
|
 |
Medaglia commemorativa dell’Unità d’Italia |
|
|
Abro Raffaele (Trieste, 1836 – Losanna, 1° ottobre 1867): Nato di famiglia agiata a Trieste nel 1836, crebbe nell’ambiente patriottico che faceva capo al gruppo della “Favilla”. Nel 1860 si trasferì in Piemonte vivendo in stretto contatto con gli elementi dell’emigrazione giuliana a Torino (C. Ressmann, E. Solferini) e godendo della fiducia del Cavour (della cui segreteria particolare fece parte) e del Ricasoli, i quali lo vollero fra i capi del comitato centrale dell’emigrazione veneta in Piemonte. Per questa sua attività nel maggio del 1861 fu creato barone da Vittorio Emanuele II. Nel 1862 entrò nella carriera diplomatica come addetto alla Legazione italiana di Berlino. Confermato definitivamente nei ruoli diplomatici, nel 1866 fece parte della delegazione che, guidata dal Menabrea, trattò a Vienna la stipulazione della pace.
De Charbonneau Cav. Alessandro in gran montura da Capitano del Genio (Alessandria, 1° marzo 1839 – Roma, 7 febbraio 1872). Entrato all’Accademia Militare di Torino il 2 novembre 1852, uscì Sottotenente del Genio l’8 agosto 1852. Tenente nel 1859, Capitano il 25 marzo 1860 fu Maggiore il 28 novembre 1867. Fu Aiutante di Campo del Tenente Generale Federico Menabrea e in tale veste fece parte della Delegazione italiana a Vienna per i trattati di pace nel settembre – ottobre 1866.
Artom Isacco(Asti, 31 dicembre 1829 – Roma, 24 gennaio 1900): Nato da una delle famiglie ebraiche più importanti della città di Asti, intraprese gli studi universitari a Pisa dove venne a contatto con l’ambiente risorgimentale. Nel 1848, prese parte alla guerra contro l’Austria, arruolandosi nel battaglione universitario e partecipando alla battaglia di Curtatone e Montanara. Dopo un periodo di malattia, riprese gli studi universitari presso la facoltà di giurisprudenza a Torino dove si laureò e conobbe Costantino Nigra diventando suo intimo amico. Tra il 1850 ed il 1859 collaborò alle testate giornalistiche dell’Opinione e del “Crepuscolo”. Dopo la sua assunzione presso il Ministero degli esteri, venne chiamato da Cavour, come uomo di fiducia presso la sua segreteria. Nel 1862 venne inviato a Parigi, nel 1866 fu Ministro Residente presso la Legazione di Vienna e nel 1867 fu a Copenaghen come segretario di Legazione. Rientrò in Italia nel 1870 ricoprendo fino al 1876 la carica di segretario generale del Ministero degli esteri. A seguito della caduta della destra storica e delle conseguenti dimissioni del ministro Emilio Visconti Venosta, si dimise volontariamente dalla carica. Fu nominato senatore il 15 maggio 1876 e fu considerato uno dei maggiori politici della Destra. Il suo discorso funebre, nell’aula del Senato, fu pronunciato dall’ex ministro Visconti Venosta.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza (1 barretta) |
|
|
 |
Medaglia commemorativa dell’Unità d’Italia |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere della Legion d’Onore |
|
|

Arc. 540: Luigi Federico Menabrea (Chambéry, 4 settembre 1809 – Saint-Cassin, 25 maggio 1896). Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1862 ca.

Arc. 1935: Luigi Federico Menabrea (Chambéry, 4 settembre 1809 – Saint-Cassin, 25 maggio 1896). Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1864 ca.

Arc. 1533: Agostino Petitti Bagliani conte di Roreto (Torino, 13 dicembre 1814 – Roma, 28 agosto 1890). Agostino Petitti Bagliani di Roreto apparteneva ad una nobile famiglia piemontese originaria di Cherasco. Il padre, conte Carlo Ilarione Petitti di Roreto (Torino, 1790 – 1850), valente economista e scrittore, da molti considerato il maggior ispiratore delle riforme carlo-albertine, rimasto vedovo della moglie Gabriella Genna dei conti di Cocconato lo iscrisse ancora in giovane età all’Accademia Reale militare di Torino dalla quale uscì nel 1833 con il grado di Tenente. Dopo un periodo trascorso a Torino alla Venaria Reale e poi al Comando del Corpo di artiglieria, nel 1848 partecipò alla prima guerra d’indipendenza meritando una Menzione Onorevole. Nel novembre dello stesso anno fu promosso Maggiore e con tale grado ricoprì l’incarico di capo di Stato Maggiore della 6ª Divisione agli ordini del Generale Alfonso La Marmora. Nel 1853 fu promosso Tenente Colonnello e nominato segretario generale del Ministero della guerra. Capo di Stato Maggiore nella guerra di Crimea (1855-1856), nel novembre del 1858 assunse il comando del Reggimento di artiglieria da campagna a Venaria reale che tenne fino al 26 aprile 1859. Nel 1859 prese parte, come Aiutante del Generale Alfonso La Marmora, alle operazioni della seconda guerra d’indipendenza ed accanto a lui visse le battaglie di Palestro, Magenta, battaglia di Solferino e San Martino ed in particolare della Madonna della Scoperta. Durante la guerra del 1859 fu promosso Maggior Generale e nel 1860 Tenente Generale, quand’era comandante della 3ª Divisione a Milano. Nello stesso anno si sposò con Maria Bellotti di Milano (1835 – 1890) dalla quale ebbe due figlie Teresa Maria (1861 – 1917) e Vittoria Emanuela (1862 – 1956). Deputato al Parlamento per il collegio di Cherasco dal 1849 al 1867, fu nominato Ministro della guerra nel primo governo di Urbano Rattazzi (1862) e nel secondo governo di Alfonso La Marmora (1864). La sua attività ministeriale fu caratterizzata da importanti interventi di riordino dell’esercito, compresa la fusione del corpo dei volontari garibaldini nelle truppe regolari, e dall’impulso dato all’istituzione di scuole per i militari ed ai relativi programmi di istruzione. Nel 1866 partecipò alla terza guerra d’indipendenza in qualità di Aiutante Generale dell’esercito e poi come comandante del IV Corpo d’Armata. Il 12 agosto 1866 firmò in nome dell’Italia l’armistizio di Cormons con l’omologo austriaco Maggior Generale barone Karl Möring. Terminata la guerra fu nominato comandante generale della Divisione militare di Alessandria e, nel 1870, della Divisione militare di Milano, conservando l’alto comando delle divisioni di Torino, Alessandria e Genova. Del 1870 è pure la sua nomina a senatore del Regno che giungeva quale meritato riconoscimento per i servizi resi alla costruzione dell’unità nazionale ed alla gestione dello Stato, e che si univa alle numerose altre onorificenze italiane e straniere. Nel 1873 ebbe il Comando generale di Milano che comprendeva le Divisioni di Milano e di Alessandria. Fu collocato a riposo nel 1877 dopo 44 anni di vita militare attiva. Morì a Roma il 28 agosto 1890. Fotografia CDV. Fotografo: L. Crette.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato del Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato del Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
12 giugno 1856 |
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza |
|
|
 |
Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Rossa (Germania) |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine di Sant’Anna (Russia) |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|
 |
Compagno dell’Ordine del Bagno (Regno Unito) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dell’Immacolata Concezione di Vila Viçosa |
|
|
 |
Medaglia inglese della Guerra di Crimea |
|
|
 |
Medaglia francese commemorativa della Seconda Guerra d’Indipendenza italiana |
|

Arc. 1936: Luigi Carlo Farini (Russi, 22 ottobre 1812 – Quarto, 1º agosto 1866). Dopo aver preso parte a Bologna al moto del 1831, si laureò in medicina ed esercitò per qualche anno la professione, finché fu costretto per le sue idee liberali, dopo il moto del 1843, a esulare in Toscana, poi a Parigi e infine a Lucca. Con l’avvento di Pio IX e l’amnistia del 1846, il Farini tornò in patria: giornalista di tendenze moderate, segretario generale al ministero dell’Interno durante il primo ministero costituzionale, inviato poi, allo scoppio della guerra del 1848, al campo di Carlo Alberto, deputato di Russi e di Ravenna, ebbe da P. Rossi affidata la direzione generale della sanità. Abbandonata Roma alla proclamazione della repubblica, si ritirò in Toscana, poi a Torino ove stampò la famosa Storia dello Stato romano dal 1815 al 1850 tradotta in inglese da W. Gladstone. Presa la cittadinanza piemontese, fu deputato dal 1849 al 1865 e assunse, per conto del Cavour, la direzione de Il Risorgimento. Ministro dell’Istruzione nel Gabinetto d’Azeglio, favorì il “connubio” Cavour-Rattazzi e, fedele interprete della politica di Cavour, ne affiancò l’opera con le sue lettere pubblicate sul Morning Post. Inviato nel 1859 quale commissario a Modena, che aveva proclamato la decadenza del duca, dopo l’armistizio di Villafranca si fece arditamente proclamare dittatore dell’Emilia e condusse in porto con grande abilità l’annessione al regno sabaudo. Divenuto ministro dell’Interno del governo Cavour (genn. 1860), preparò la legge sulle regioni ripresa poi dal Minghetti; quindi fu luogotenente del re a Napoli. Dopo la crisi del ministero Rattazzi, formò il governo e lo resse dal dicembre 1862 al marzo 1863, allorché, ammalato, fu costretto ad abbandonare la vita politica. Muore in miseria tre anni più tardi, dopo essere stato ricoverato nello “stabilimento di salute” (il manicomio) di Novalesa (TO). Venne inizialmente sepolto nel Cimitero monumentale di Torino; nel 1878 le spoglie vennero disseppellite e trasferite nel cimitero della sua cittadina natale, Russi. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Bernieri – Torino. 1862 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 1860 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 1860 |

Arc. 1051: Luigi Carlo Farini (Russi, 22 ottobre 1812 – Quarto, 1º agosto 1866). Fotografia CDV. Fotografo: A. Bernoud – Napoli. Foto scattata durante la luogotenenza a Napoli. 1860 ca.

Arc. 70: Luigi Carlo Farini (Russi, 22 ottobre 1812 – Quarto, 1º agosto 1866). Fotografia CDV. Fotografo: E. Di Chanaz – Torino. 1865 ca

Arc. 1052: Francesco Crispi (Ribera, 4 ottobre 1818 – Napoli, 11 agosto 1901). Recatosi a Napoli (1845) per esercitare l’avvocatura, ebbe contatti con elementi liberali e nel periodo anteriore al 1848 fece da tramite fra costoro e i patrioti della Sicilia. Scoppiata la rivoluzione a Palermo (12 gennaio 1848), fu membro del comitato di guerra e poi deputato alla Camera dei comuni, dove appartenne all’opposizione repubblicana che appoggiò anche nel suo giornale, L’Apostolato. Fallita la rivoluzione (1849), esulò in Piemonte, dedicandosi agli studi e al giornalismo, collaborando alla Concordia del Valerio e al Progresso del Correnti. Espulso dal Piemonte dopo i moti milanesi (1853), si recò a Malta, dove pure fondò un giornale (La Staffetta) e intraprese lavori storici (Dei diritti della corona d’Inghilterra sulla Chiesa di Malta, 1855), tenendosi in corrispondenza con Mazzini e con Rosolino Pilo. Espulso, andò a Londra, poi a Parigi, finché la reazione succeduta all’attentato Orsini (1858) non lo costrinse di nuovo ad andare ramingo per l’Europa. In questi anni, intanto, i suoi intensi contatti con gli esuli di parte democratica e con Mazzini lo spinsero ad abbandonare l’autonomismo siciliano e a schierarsi decisamente per la soluzione unitaria: e però nel 1859, mentre prendeva posizione con Mazzini contro la guerra regia, si recava in Sicilia a organizzarvi l’insurrezione (luglio-agosto), e l’anno successivo contribuiva in modo determinante a far decidere Garibaldi a compiere la spedizione di Sicilia. Di tale spedizione egli fu, in certo modo, il cervello politico, sia per la sua attività di amministratore, sia per la parte ch’egli ebbe nello sforzo di rinviare l’annessione finché non fossero liberate anche Roma e Venezia. Da ciò la guerra acerba che gli mosse il partito moderato, culminata in alcuni episodi clamorosi. Proclamata l’unità, il Crispi, eletto deputato (1861), sedette a sinistra: ma persuaso ormai che la monarchia fosse garanzia di unità e generatrice di forza spirituale per la nazione, vi aderì, staccandosi clamorosamente da Mazzini (marzo 1865). Alla caduta della destra (1876) assunse la presidenza della Camera; l’anno successivo un suo incontro con Bismarck a Gastein e a Berlino condusse a gravi impegni dell’Italia in senso antifrancese, senza correlativi vantaggi in altri settori. Ministro degli Interni dal 27 dicembre 1877, fu però costretto a dimettersi il 7 marzo 1878, di fronte all’accusa di bigamia sollevata contro di lui per avere sposato il 26 gennaio Lina Barbagallo, vivente ancora Rosalia Montmasson da lui sposata, non regolarmente, a Malta il 27 dicembre 1854. Tornò al ministero degli Interni il 4 aprile 1887 con Depretis, al quale succedette il 29 luglio seguente come presidente del Consiglio. Assertore di una politica “forte” all’interno e all’estero, fu strenuo sostenitore della Triplice Alleanza e deciso avversario della Francia, promotore dell’espansione coloniale (col trattato di Uccialli, 1889, sperò di sottoporre l’Etiopia al protettorato italiano), e di leggi fondamentali per l’amministrazione interna. Dimessosi il 31 genn. 1891, tornò al governo il 15 dic. 1893: fronteggiò con durezza i moti popolari che allora scoppiarono, affrontò le accuse che gli si mossero in relazione agli scandali della Banca romana, tentò accordi con la Francia per alleggerire l’eccessiva soggezione italiana alla Triplice Alleanza, ma, impegnatosi a fondo in Africa, fu travolto dal disastro di Adua (1º marzo 1896). Legati alla sua particolare personalità e alle sue incertezze furono i tentativi, entrambi falliti, di riavvicinamento alla S. Sede (1887 e 1894-95). Fotografia CDV. Fotografo: A. Meylan – Torino. Al retro “Francesco Crispi – Siciliano. Deputato al Parlamento Regionale. Avuto a Firenze il giorno 24 maggio 1862”.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
|
 |
Medaglia commemorativa dei 1000 di Marsala |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere dell’Aquila Nera di Prussia |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Salvatore (Grecia) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di Santo Stefano d’Ungheria (Austria) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Torre e della spada (Portogallo) |
|
|
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|

Arc. 3199: Francesco Crispi (Ribera, 4 ottobre 1818 – Napoli, 11 agosto 1901). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 1212: Nigra conte Giovanni (Torino, 16 maggio 1798 – Torino, 12 dicembre 1865). Contitolare della banca Nigra fratelli e figli, istituto privato torinese che affondava le radici nel commercio settecentesco delle sete, a 35 anni subentrò in qualità di presidente al padre, deceduto il 3 novembre 1833, ereditando il ruolo di banchiere delle corti pontificia e sarda. Nominato quello stesso anno decurione di Torino, entrò a far parte dell’amministrazione cittadina nei ranghi dei rappresentanti del ceto borghese, sedendo sullo scanno occupato dal padre nell’ultimo decennio. Dopo aver attraversato, nel consiglio generale, nella congregazione e nella ragioneria, le tappe prescritte dal regio biglietto 8 dicembre 1767 – tornato in vigore con la Restaurazione e sostanzialmente invariato fino allo Statuto – poté accedere al grado supremo dell’amministrazione e il 31 dicembre 1845 fu nominato sindaco di seconda classe. Forte del duplice prestigio di uomo di finanza esperto e di amministratore pubblico sagace, dopo la sconfitta di Novara fu chiamato a dare il primo assetto alle disastrate finanze subalpine nei governi presieduti da Gabriel de Launay e Massimo d’Azeglio. Ceduta la presidenza della banca e i lucrosi affari al fratello Felice, tenne il portafoglio delle Finanze dal 27 marzo 1849 al 19 aprile 1851. Insignito lo stesso 19 aprile 1851 del gran cordone dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, dopo le nomine a cavaliere e a commendatore, e deposta a dicembre nelle mani del banchiere Guglielmo Mestrezat la presidenza della Compagnia di Assicurazioni, Nigra partecipò ai lavori della Camera alta, anche in qualità di membro della commissione Finanze. Grazie alla piena fiducia di Vittorio Emanuele II, toccò l’apogeo della carriera succedendo al marchese Stanislao Cordero di Pamparato, esonerato nel 1853, nella carica di sovrintendente generale della lista civile e assumendo nel 1856 il titolo di ministro della Casa del Re, istituito con decreto 10 novembre dello stesso anno. Quanto affidamento facesse Vittorio Emanuele II su Nigra è rivelato da una lettera indirizzatagli il 30 aprile 1859: «Io parto domattina per la campagna con l’esercito. Nella mia assenza vi affido tutto ciò che ho di più caro e prezioso: i miei figli, la mia casa. So di lasciarli a un altro me stesso. Ecco il mio testamento; se sarò ucciso, voi l’aprirete e avrete cura che tutto ciò che vi si trova sia eseguito. Io procurerò di sbarrare la via di Torino: se non ci riesco e che il nemico avanzi, portate al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo: vi sono al Museo delle Armi quattro bandiere austriache prese dalle nostre truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio padre. Questi sono i trofei della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno, valori, gioie, archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve, come i miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo, il resto è niente». La famiglia reale e l’onore del casato vennero deposti dunque nelle mani di Nigra, che non mancò al suo compito né in guerra né in pace, vivendo all’ombra del «Gran re» fino alla morte, che lo colse a Torino il 12 dicembre 1865. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 31 dicembre 1848 |
 |
Gran Croce decorato di Gran cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 19 aprile 1851 |
Onorificenze straniere
 |
Gran cordone dell’Ordine di Leopoldo (Belgio) |
|
|
 |
Grande ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|
 |
Gran Croce decorato di Gran cordone dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|
 |
Gran Croce decorato di Gran cordone dell’Ordine della Concezione di Villa Viciosa (Portogallo) |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine imperiale dell’Aquila bianca di Russia |
|
|
 |
Decorato dell’Ordine del Medjèdiè (Impero ottomano) |
|
|
 |
Decorato del Nicham-Iftikhar (Impero ottomano) |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine di Danebrog (Danimarca) |
|
|
 |
Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine di Danebrog (Danimarca) |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine della Stella polare (Svezia) |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine della Torre e della Spada (Portogallo) |
|
|

Arc. 122b: Nigra conte Giovanni (Torino, 16 maggio 1798 – Torino, 12 dicembre 1865). Fotografia CDV. Fotografo: E. Di Chanaz – Torino. 1860 ca.

Arc. 2791: Nigra conte Giovanni (Torino, 16 maggio 1798 – Torino, 12 dicembre 1865). Fotografia CDV. Fotografo: E. Di Chanaz – Torino. Al retro ” Conte Giovanni Nigra di Torino. Ministro della Real Casa. 1863″.

Arc. 572: Manfredo Fanti (Verona, 23 febbraio 1806 – Firenze, 5 aprile 1865). Figlio di Antonio e di Silea Ferrari Corbolani, crebbe come suddito del Ducato di Modena. Nel 1825 fu ammesso nel Corpo dei pionieri dell’esercito del Duca e, dopo cinque anni di studi, conseguì la laurea in ingegneria e fu promosso ufficiale del Genio. Nel 1831 aderì al Governo insurrezionale di Modena, che aveva assunto il potere dopo la cattura di Ciro Menotti e la fuga del Duca. Combatté in Romagna con le truppe di Carlo Zucchi, segnalandosi nel combattimento di Rimini il 25 marzo. Dopo la capitolazione di Ancona, condannato all’impiccagione, si rifugiò in Francia, dove regnava Luigi Filippo, ottenendo di essere arruolato nel corpo del Genio. Nel 1834 prese parte al tentativo rivoluzionario di Mazzini. Nel 1835 passò in Spagna, ove restò tredici anni, per arruolarsi volontario nell’Esercito della reggente Maria Cristina, nella guerra contro i carlisti. Fu tenente nel 5º Battaglione di Catalogna, poi capitano quindi maggiore, sempre per merito di guerra. Nel 1839 entrò nell’esercito regolare spagnolo e nel 1847 venne promosso colonnello di cavalleria assumendo le funzioni di capo di Stato Maggiore del comando generale di Madrid. Tornato in Italia nel 1848 allo scoppio della prima guerra di indipendenza offrì invano i propri servigi al Re di Sardegna ed al Governo Provvisorio della Lombardia. Solo nel luglio 1848, quest’ultimo gli affidò l’incaricò di apprestare a difesa la città di Vicenza, con il grado di maggior generale. Dopo l’abbandono del Veneto, partecipò alle abortite operazioni in difesa di Brescia, Milano ed Alessandria. Nel novembre del 1848 assunse il comando della 2ª Brigata della «Divisione Lombarda», formata da volontari lombardi, con il grado di generale di brigata. Nel 1849 fu ammesso al Congresso consultivo permanente di guerra e fu nominato deputato per il collegio di Nizza Monferrato. Partecipò alla campagna del 1849 e, dopo la disfatta alla battaglia di Novara del 23 marzo, successe al suo superiore, il generale Gerolamo Ramorino, ritenuto responsabile della disfatta e fucilato per ignavia. Nell’aprile 1849 impedì alla sua divisione, malgrado la volontà dei soldati, di intervenire a difesa dei genovesi insorti contro il Re, contro i quali era in atto la violenta repressione comandata da Alfonso La Marmora. Fanti venne tuttavia sospettato di tradimento e comunque di disaccordo col comportamento di La Marmora e di altri ufficiali. Fu quindi processato con l’accusa di corresponsabilità con il Ramorino nei precedenti fatti di Novara, per cui fu assolto, ma fu comunque allontanato dall’esercito. Fanti (che divenne suddito sardo nel 1850) solo nel 1855 poté ottenere un nuovo comando e partecipò alla spedizione piemontese alla guerra di Crimea, alla guida della seconda brigata provvisoria. Nel corso della seconda guerra di indipendenza, con il grado di luogotenente generale, comandò la 2ª Divisione, segnalandosi specialmente nei combattimenti a Magenta, Palestro e a San Martino. Venne insignito della croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia. Dopo l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859); Fanti venne incaricato della riorganizzazione delle nuove divisioni formate dalle Lega dell’Italia Centrale (comprendente Granducato di Toscana, Ducato di Parma, Ducato di Modena e Legazione delle Romagne) e, nel giro di pochi mesi, seppe trasformarle in un funzionante corpo di 45.000 uomini, provenienti da diverse parti della penisola. Fanti seppe dare un contributo decisivo per impedire il tentativo di restaurazione, espletato nell’autunno-inverno dello stesso anno da Francesco Giuseppe I d’Asburgo, di concerto con Francesco II delle Due Sicilie, a sostegno delle rivendicazioni di Pio IX, del Granduca di Toscana e dei Duchi di Modena e Parma per la restaurazione dei loro Stati. Dopo aver sventato il piano di restaurazione, consolidò il possesso del territorio dando avvio alla nuova Scuola Militare di Fanteria di Modena, ospitata nel palazzo del deposto duca. Fanti seppe anche fermare Garibaldi che, reduce dai trionfi dei Cacciatori delle Alpi, si era portato in Romagna ed intendeva procedere verso Umbria e Marche senza l’assenso di Napoleone III. Sulla base di tali ottime credenziali, nel gennaio 1860 Cavour incaricò Fanti del Ministero della Guerra e della Marina. Suo primo e fondamentale incarico fu l’incorporazione dell’esercito della Lega dell’Italia Centrale nell’Esercito Sardo. Il 29 febbraio 1860 fu nominato dal Re senatore. Il 5 maggio prese l’avvio la spedizione dei mille; Fanti fu nominato a capo del Corpo d’esercito destinato ad operare nell’Italia centrale: ebbe una parte rilevante nella liberazione delle Marche e dell’Umbria (battaglia di Castelfidardo e conquista di Perugia). Fu decorato della gran croce dell’Ordine Militare di Savoia. Divenne, quindi, generale d’armata e capo di stato maggiore generale dell’esercito nell’Italia meridionale: sconfisse i borbonici alla battaglia di Mola e fu decorato di medaglia d’oro al valore con regio decreto 1º giugno 1861 per la riuscita organizzazione dell’assedio di Gaeta, terminato con la resa di Gaeta il 13 febbraio 1861. Il 4 maggio 1861 a Torino Fanti, in qualità di Ministro della Guerra, poté quindi decretare che l’esercito, prima denominato Armata Sarda, avrebbe preso il nome di Regio Esercito italiano. La sua opposizione alla facile ammissione nel Regio Esercito dei circa 5.000 ufficiali dell’Esercito Meridionale di Garibaldi, con la conservazione del grado, lo rese fortemente impopolare. Alla morte del Cavour, il 7 giugno 1861 si dimise dal ministero, per assumere il comando del VII Corpo d’armata. Venne tuttavia presto colpito da una grave malattia, che lo costrinse dapprima a ritirarsi a vita privata nel 1863, e poi lo portò alla morte, a Firenze, il 5 aprile 1865. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1862 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— Torino, 4 ottobre 1860 |
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine militare di Savoia |
|
— Torino, 4 ottobre 1860 |
 |
Grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 16 gennaio 1860 |
 |
Commendatore dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 12 giugno 1856 |
 |
Medaglia d’Oro al Valor Militare |
|
«Per essersi distinto all’attacco e presa di Mola di Gaeta, 4 novembre 1860.» — 1º giugno 1861 |
 |
Medaglia piemontese della Guerra di Crimea |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza (4 barrette) |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere dell’Ordine di San Ferdinando di Spagna (Regno di Spagna) |
|
— Madrid, 15 luglio 1837 |
 |
Commendatore dell’Ordine di Isabella la Cattolica (Regno di Spagna) |
|
— Madrid, maggio 1848 |
 |
Cavaliere di I classe dell’Ordine di Medjidié (Impero ottomano) |
|
— Istanbul, 6 gennaio 1860 |
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
— Parigi, 12 gennaio 1860 |
 |
Ufficiale dell’Ordine di Leopoldo (Belgio) |
|
|
 |
Medaglia inglese della Guerra di Crimea |
|
|
 |
Medaglia francese commemorativa della Seconda Guerra d’Indipendenza italiana |
|
|

Arc. 1875: Enrico Cialdini (Castelvetro di Modena, 8 agosto 1811 – Livorno, 8 settembre 1892). Studente di medicina a Parma, per aver partecipato ai moti del 1831 fu costretto all’esilio in Francia. Nel 1833 combatté con le forze liberali e costituzionali prima in Portogallo e poi in Spagna nella guerra per la successione al trono dove si schierò a sostegno della reggente Maria Cristina. Si distinse in numerosi episodi di valore e nel 1847 raggiunse il grado di colonnello nell’esercito spagnolo. Inviato poi in Francia per adempiere a un incarico militare, fu raggiunto all’inizio del 1848 dalla notizia dei primi moti in Italia. Dimessosi dall’esercito spagnolo, rientrò in Italia e si unì alle truppe pontificie che erano entrate nel Veneto. Ferito gravemente nella difesa di Vicenza (giugno), dopo la convalescenza chiese di essere arruolato nell’esercito sardo e combatté, alla ripresa del conflitto, al comando di un reggimento composto in gran parte di rifugiati parmensi e modenesi. Durante la guerra di Crimea fu comandante di una delle cinque brigate piemontesi destinate alle operazioni, ma le sue truppe non furono coinvolte nei combattimenti. Promosso generale (1855) e aiutante di campo del re, nel 1859 coadiuvò Garibaldi nell’organizzare i volontari del corpo dei Cacciatori delle Alpi. Allo scoppio della guerra guidò la spedizione nelle Marche, occupò Pesaro e fu al comando delle truppe che sconfissero l’esercito pontificio a Castelfidardo (settembre 1860). A Gaeta comandò l’assedio della fortezza dove si erano rifugiati i Borbone che capitolò il 12 febbraio 1861; un mese più tardi anche la guarnigione della cittadella di Messina si arrendeva alle truppe di Cialdini, ultima fortezza del Regno delle Due Sicilie ad essere conquistata. I grandi successi militari conseguiti, l’amicizia del re (che lo nominò duca di Gaeta), la stima di Cavour e l’elezione alla camera nel 1860 e 1861 determinarono la rapida ascesa della carriera di Cialdini: comandante del VI corpo d’armata nel luglio 1861, alla fine dello stesso anno fu nominato luogotenente del re a Napoli. In questa veste diresse la repressione del brigantaggio ricorrendo a misure di durissima rappresaglia che tolsero alle bande il sostegno della popolazione. Nominato commissario straordinario in Sicilia nel 1862, diede l’ordine di affrontare e fermare Garibaldi all’Aspromonte (29 agosto). Nel corso della guerra del 1866 i contrasti tra lui e il presidente del Consiglio La Marmora, capo di stato maggiore, impedirono un accordo sul piano delle operazioni militari, determinando un mancato coordinamento delle truppe: mentre La Marmora comandava l’offensiva attraverso il Mincio, Cialdini assumeva il comando delle forze armate schierate sul basso Po. Dopo la sconfitta di La Marmora a Custoza (26 giugno 1866), Cialdini si ritirava e sospendeva il passaggio del Po; investito del comando delle operazioni, guidò l’avanzata dell’esercito fino a Udine, ma i contrasti con La Marmora non si attutirono e alimentarono astiose polemiche anche dopo la conclusione delle operazioni. Nominato senatore nel 1864, fu designato da Vittorio Emanuele II ambasciatore straordinario a Madrid nel 1870. Ambasciatore a Parigi dal 1876, si ritirò dalla vita diplomatica nel 1881. Fotografia CDV. Fotografo: J. Clarck. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
1867 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
1867 |
 |
Balì di Gran Croce Sovrano Militare Ospedaliero Ordine di Malta |
|
|
 |
Cavaliere di gran croce dell’Ordine militare di Savoia |
|
19 novembre 1860 |
 |
Grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
16 gennaio 1860 |
 |
Commendatore dell’Ordine militare di Savoia |
|
12 giugno 1856 |
 |
Medaglia d’Argento al Valor Militare |
|
|
Medaglia commemorativa della guerra di Crimea
Medaglia francese commemorativa della campagna 1859
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza |
|
|
 |
Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|

Arc. 1050: Enrico Cialdini (Castelvetro di Modena, 8 agosto 1811 – Livorno, 8 settembre 1892). Fotografia CDV. Fotografo: A. Bernoud – Firenze. 1862 ca.

Arc. 1051: Enrico Cialdini (Castelvetro di Modena, 8 agosto 1811 – Livorno, 8 settembre 1892). Fotografia CDV. Fotografo: A. Bernoud – Napoli. 1860 ca.

Arc. 573: Enrico Cialdini (Castelvetro di Modena, 8 agosto 1811 – Livorno, 8 settembre 1892). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 1308: Enrico Cialdini (Castelvetro di Modena, 8 agosto 1811 – Livorno, 8 settembre 1892). Fotografia CDV. Fotografo:Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 1052: Salvatore Raimondo Gianluigi Pes, marchese di Villamarina e barone dell’Isola Piana (Cagliari, 11 agosto 1808 – Torino, 14 maggio 1877). Era figlio del marchese Emanuele, che era stato ministro della guerra di Carlo Alberto, e luogotenente della Sardegna. Laureatosi in legge all’università di Torino nel 1828, entrò due anni dopo in diplomazia, come volontario al Ministero degli affari esteri, e quando (1832) il padre fu nominato ministro della Guerra, egli vestì la divisa militare in qualità di ufficiale di cavalleria. Gradito a Carlo Alberto, ebbe in seguito varie missioni diplomatiche all’estero. Nominato nel 1847 consigliere di legazione, l’anno dopo fu inviato in Toscana come incaricato d’affari, e in quei difficili momenti invano sconsigliò Leopoldo II dal raggiungere il papa a Gaeta. Nel 1852 ebbe la nomina a ministro plenipotenziario a Parigi, dove l’opera sua fu assai apprezzata dal conte di Cavour, e il suo atteggiamento come rappresentante del Piemonte, non appena ebbe notizia dei preliminari di Villafranca, fu degno di grande lode. Alla fine del 1859 fu destinato a Napoli in qualità d’ inviato straordinario e di ministro plenipotenziario presso la corte borbonica, e in quella difficile missione seppe destreggiarsi con abilità, specialmente quando avvenne la spedizione dei Mille, e quando persuase il conte di Cavour che non poteva impedirsi la dittatura a Napoli di Garibaldi, di cui fu amico leale e schietto. Richiamato da Napoli, nel 1862 fu destinato come prefetto a Milano, dove rimase sei anni.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 2 ottobre 1849 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 28 aprile 1853 |
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 9 novembre 1860 |
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Reale Guelfo (Gran Bretagna e Hannover) |
|
|
 |
Cavaliere di Grande Stella dell’Ordine del Leone e del Sole (Persia) |
|
|

Arc. 578: Visconti Venosta marchese Emilio(Milano, 22 gennaio 1829 – Roma, 28 novembre 1914). Figlio di Francesco (1797-1846) e Paola Borgazzi (m. 1864), e fratello maggiore del patriota Giovanni Visconti Venosta, Emilio studiò al Liceo classico Giuseppe Parini a Milano e successivamente frequentò la facoltà di giurisprudenza a Pavia, poi intraprese la politica prima con i repubblicani e poi con i cavouriani. Sposò Maria Luisa Alfieri di Sostegno, parente sia di Vittorio Alfieri sia di Cavour. Discepolo di Mazzini, prese parte a tutte le cospirazioni anti-austriache fino alla sollevazione di Milano il 6 febbraio 1853, quando, per divergenze d’idee con Mazzini, quest’ultimo si separò dalla “cospirazione ufficiale” con una lettera indirizzata allo stesso. Continuò comunque la sua propaganda anti-austriaca, rese un buon servizio alla causa nazionale; infastidito dalla polizia austriaca, fu quindi obbligato nel 1859 a rifugiarsi a Torino e, durante la guerra con l’Austria di quell’anno, fu nominato da Cavour commissario del Re nelle forze garibaldine. Eletto deputato nel 1860, accompagnò Farini in missioni diplomatiche a Modena e Napoli e fu quindi inviato a Londra e Parigi per ragguagliare i governi inglese e francese sulla situazione italiana. Come riconoscimento per la diplomazia usata in questa occasione, Cavour gli conferì un incarico stabile al Ministero degli Esteri. In seguito Visconti Venosta fu nominato Segretario generale del Ministero dal conte Pasolini. Alla morte di questi, divenne ministro degli Esteri il 24 marzo 1863 nel governo Minghetti; ebbe l’importante ruolo di non far restare l’Italia isolata politicamente (specialmente dopo la presa di Roma avvenuta 7 anni dopo la sua nomina), divenne famoso per la celebre frase “indipendenti sempre isolati mai”. Nella veste di ministro e nel 1864 sottoscrisse la “convenzione di settembre” con la Francia sulla “questione romana”. Terminata la funzione di ministro con la caduta di Minghetti nell’autunno nel 1864, nel marzo 1866 fu inviato dal nuovo capo del governo La Marmora a Costantinopoli come “ministro del re”, ma venne quasi immediatamente richiamato e nominato di nuovo ministro degli esteri da Ricasoli. Assunto l’incarico all’indomani della battaglia di Custoza, riuscì ad evitare che parte del debito dell’impero austriaco venisse trasferito all’Italia in aggiunta al debito veneziano. La fine del governo Ricasoli nel febbraio 1867 lo privò per un po’ del suo incarico, ma ridivenne ministro degli esteri nel dicembre 1869 entrando nel governo Lanza-Sella; mantenne il dicastero anche nel successivo governo Minghetti, fino alla fine del governo della Destra, nel 1876. Durante questo lungo periodo, fu chiamato a condurre i delicati negoziati connessi con la guerra franco-prussiana, l’occupazione di Roma e la conseguente fine del potere temporale del papa, la legge delle Guarentigie e le visite di Vittorio Emanuele II a Vienna e Berlino. In occasione del suo matrimonio con la figlia del marchese Alfieri di Sostegno, nipote di Cavour, il re gli attribuì il titolo di marchese. Per un certo periodo rimase in Parlamento, all’opposizione, e il 7 giugno 1886 fu nominato senatore. Risale allo stesso anno la sua nomina a presidente dell’Accademia di Brera, carica che ricoprì per ben due mandati, fino al 1897. Successivamente ne acquisì il titolo di presidente onorario. Nel 1894, dopo sedici anni di assenza dalla politica attiva, fu scelto come l’arbitro italiano nella disputa del mare di Bering; nel 1896 accettò un’altra volta il dicastero degli esteri nel governo Di Rudinì in un momento in cui i rovesci nella guerra di Abissinia e la pubblicazione di notizie di fonte abissina avevano reso la posizione italiana estremamente difficile. La sua prima preoccupazione fu migliorare le relazioni tra Italia e Francia, contrattando con Parigi un accordo riguardo Tunisi. Durante i negoziati sulla questione di Creta e la guerra greco-turca del 1897 assicurò all’Italia un ruolo significativo in ambito europeo e appoggiò Lord Salisbury nel risparmiare alla Grecia la perdita della Tessaglia. Si ritirò nuovamente a vita privata nel maggio 1898, dimettendosi per questioni di politica interna, ritornando però in carica nel maggio 1899, sempre come ministro degli esteri, nel secondo governo Pelloux, e vi rimase anche nel successivo governo Saracco, fino alla caduta di questo nel febbraio 1901. Durante questo periodo dedicò la sua attenzione soprattutto al problema della Cina e al mantenimento dell’equilibrio nel Mar Mediterraneo e nell’Adriatico. In tal senso concluse un patto con la Francia per cui si lasciava tacitamente mano libera agli italiani a Tripoli, mentre l’Italia non avrebbe interferito nella politica francese in Marocco; riguardo all’Adriatico, raggiunse un accordo con l’Austria garantendo lo status quo in Albania. Prudenza e sagacia, insieme a un’ineguagliabile esperienza in politica estera, gli consentirono di assicurare all’Italia la massima influenza possibile nelle questioni internazionali, guadagnandosi la stima unanime delle diplomazie e governi europei. Come riconoscimento per i suoi meriti di servizio, fu nominato Cavaliere dell’Annunziata da Vittorio Emanuele III di Savoia in occasione della nascita della principessa Iolanda Margherita di Savoia, il 1º giugno 1901. Nel febbraio 1906 fu il delegato italiano nella conferenza di Algeciras. Lo scopo della conferenza era mediare tra Francia e Germania, nella prima crisi marocchina, e assicurare il rimborso di un ingente prestito concesso al Sultano nel 1904. Ad Algeciras Visconti Venosta rese evidenti le contraddizioni della politica degli austro-tedeschi nei confronti dell’Italia, non potendo costoro sostenere che la Triplice Alleanza non avesse efficacia nelle questioni mediterranee e contemporaneamente richiedere all’Italia di appoggiare il tentativo di penetrazione tedesca in Marocco. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
2 giugno 1901 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
2 giugno 1901 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
2 giugno 1901 |
Onorificenze straniere
 |
Gran cordone dell’Ordine di Leopoldo (Belgio) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Dannebrog (Danimarca) |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine dell’Aquila Rossa (Impero di Germania) |
|
|
 |
Gran Dignitario dell’Ordine della Rosa (Impero del Brasile) |
|
|
 |
Cavaliere di V classe dell’Ordine di Medjidié (Impero Ottomano) |

Arc. 2987: Ferdinando Arborio Gattinara di Breme (Milano, 30 aprile 1807 – Firenze, 21 gennaio 1869). Appartenente alla nobile famiglia degli Arborio Gattinara e figlio del marchese Filippo, sposò la nobile Luisa Dal Pozzo della Cisterna da cui ebbe un figlio, Alfonso, senatore del Regno d’Italia. Nel 1827 come dono di nozze alla principessa, fece costruire una splendida Villa affacciata sulla cornice piemontese del Lago Maggiore, dimora che divenne così la sua residenza lacustre. La Villa è tutt’ora di proprietà dei Marchesi dal Pozzo d’Annone: charme e romanticismo sono le caratteristiche di una tra le ville più antiche del lago, che conserva tutto il sapore dell’epoca Vittoriana. Conte di Sartirana e Marchese di Breme dalla nascita, il Re gli concesse il titolo di Duca di Sartirana il 26 maggio 1867. Giovane, studiò scienze naturali, diventando così un eccellente entomologo. Il 18 dicembre 1849 venne nominato senatore del Regno di Sardegna. Abitò nel Castello di Sartirana nel circondario di Mortara, poi nella Villa La Tesoriera a Torino e infine con l’Unità d’Italia a Roma. Gran maestro delle cerimonie di corte a Torino, divenne Prefetto di palazzo e introduttore degli ambasciatori. Fu membro del Consiglio della Direzione generale dei Teatri del Regno; socio onorario del Museo industriale italiano di Torino; socio dell’Accademia delle scienze di Torino (dal 12 dicembre 1841), socio dell’Accademia d’agricoltura di Torino, membro onorario della Società di agricoltura, industria e commercio di Torino, Vicepresidente dal 1851 al 1852 e Presidente dell’Accademia d’agricoltura di Torino dal 1858 al 1862; Socio onorario, Direttore generale e Presidente dell’Accademia albertina di Torino; Presidente della Società promotrice delle belle arti di Torino; Ministro di Stato. Fotografia CDV. Fotografo: A. Duroni – Milano.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
12 marzo 1850 |
 |
Grande ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
25 marzo 1858 |
 |
Gran Croce decorato di gran cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
30 dicembre 1861 |
 |
Gran Croce decorato di gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
22 aprile 1868 |
Onorificenze straniere
 |
Commendatore dell’Ordine della Legion d’onore (Francia) |
|
|
 |
Grande ufficiale dell’Ordine della Legion d’onore (Francia) |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine di Cristo (Portogallo) |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine dell’Immacolata Concezione di Vila Viçosa (Portogallo) |
|
|
 |
Cavaliere di I classe dell’Ordine di San Stanislao (Impero russo) |
|
|
 |
Gran cordone dell’Ordine di Sant’Olav (Svezia e Norvegia) |
|
|
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine di Nichan Iftikar (Tunisia) |

Arc. 540: Della Rovere marchese Alessandro Filippo (Casale Monferrato, 26 ottobre 1815 – Torino, 17 novembre 1864). Ufficiale di carriera, prese parte alla prima guerra d’indipendenza, alla guerra di Crimea, e alla seconda guerra d’indipendenza. Nominato Tenente generale dell’esercito del Regno di Sardegna nel 1859, fu Intendente Generale dell’Armata Sarda nel 1860, e con il grado di Maggior generale nel Regio esercito. Nell’aprile 1861 fu nominato Luogotenente generale del re nelle province siciliane, fino al settembre dello stesso anno, quando fu nominato ministro della guerra. Nell’isola considerò la questione siciliana principalmente come problema di polizia, da risolvere come questione di pubblica sicurezza. Fu infatti uno dei primi Ministri del neonato Regno d’Italia reggendo il Ministero della Guerra in tre governi: Ricasoli I, Farini e Minghetti I (1861-1864). Morì due mesi dopo aver lasciato il ministero. Nel novembre 1861 era stato nominato dal re senatore del Regno. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1860 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 1º giugno 1861 |
 |
Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia |
|
— 12 giugno 1856 |
 |
Medaglia d’Argento al Valor Militare |
|
|
 |
Medaglia commemorativa dell’Unità d’Italia |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Commendatore dell’ordine della Legion d’onore (Francia) |
|
|
 |
Compagno dell’Ordine del Bagno (Regno Unito) |
|
|
 |
Medaglia inglese della Guerra di Crimea |
|
|
 |
Medaille Commémorative de la Campagne d’Italie de 1859 |

Arc. 3178: Lorenzo Annibale Costantino Nigra (Villa Castelnuovo, 11 giugno 1828 – Rapallo, 1º luglio 1907). Compì i primi studi a Bairo e in seguito ad Ivrea dove concluse il secondo ciclo scolastico. Nel 1845, grazie ad una borsa di studio, poté iscriversi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, nonostante il grande interesse per la poesia e la letteratura. Nel corso degli studi universitari non nascose (1848) il sostegno al conflitto bellico del Piemonte con la potenza imperiale austriaca, tanto che decise di arruolarsi nel corpo dei bersaglieri studenti, come volontario. Partecipò alle battaglie di Peschiera del Garda, Santa Lucia e Rivoli, dove fu ferito ad un braccio. Già l’anno seguente rientrò a combattere, assistendo alla sconfitta di Novara. Ripresi gli studi dopo la parentesi bellica, riuscì a laurearsi in legge nell’università torinese. Prestò servizio dal 1851 al Ministero degli Esteri venendo nominato segretario del primo ministro Massimo D’Azeglio e in seguito di Camillo Cavour, che accompagnò al Congresso di Parigi del 1856 come Capo di Gabinetto. Due anni dopo, nel 1858, fu inviato in missione segreta a Parigi per concretizzare l’ipotesi di alleanza decisa a Plombières tra Napoleone III e Cavour e progettare la guerra tra il Regno di Sardegna e l’Impero austriaco. Svolse un ruolo determinante nella politica estera italiana per il completamento del processo di unificazione dell’Italia dopo la morte di Cavour avvenuta nel 1861. Divenne in seguito ambasciatore italiano a Parigi (1860), San Pietroburgo (1876), Londra (1882) ed infine a Vienna (1885). Durante il suo mandato a Parigi contribuì ai negoziati che portarono, grazie al consenso di Napoleone III, alla conclusione dell’Alleanza italo-prussiana del 1866. Nel 1870, ambasciatore a Parigi, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, l’imperatore stesso venne fatto prigioniero. Egli rimase l’unico amico dell’imperatrice Eugenia de Montijo, nominata reggente. Poiché il popolo era insorto proclamando la Repubblica, Nigra l’aiutò a fuggire ed a mettersi in salvo.Nel 1887 rifiutò la carica di Ministro degli Esteri, offertagli dal re Umberto I di Savoia. Fu nominato conte nel 1882 e nel 1890 senatore del Regno d’Italia. Verrà inoltre insignito dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata. Nigra collaborò con accademie italiane e francesi, oltre che con riviste filologiche italiane, francesi e tedesche. Nigra svolse incarichi di estrema delicatezza per il presidente del consiglio Cavour: il suo Resoconto dell’amministrazione delle province napolitane, redatto nel 1861 appena proclamata l’Unità d’Italia, fu in seguito giudicato un “mirabile coraggioso scritto (…) che vale tant’oro” da Giustino Fortunato. Molto tempo dopo la morte del Conte, Nigra fu protagonista di un caso piuttosto discusso, probabilmente di ossequio alla memoria del suo mentore: nel 1894 si rese autore della distruzione di un pacco di lettere, scritte di pugno da Cavour all’amante Bianca Ronzani, che il senatore aveva rinvenuto presso un collezionista viennese, disposto a cederle per la somma di mille lire e la nomina a cavaliere della corona d’Italia.Avuto il preventivo assenso alla concessione dell’onorificenza da parte di Umberto I, Nigra concluse la transazione e, alla presenza di testimoni, bruciò le 24 lettere che componevano l’epistolario cavouriano. Il contenuto delle missive, ritenuto piccante e disdicevole, fu la motivazione ufficiale per quell’atto distruttivo del patrimonio storico, che avrebbe potuto chiarire gli ultimi mesi di vita del grande statista italiano.Il Re Vittorio Emanuele vedeva nel Nigra il fidato amico e collaboratore di Cavour, a lui sempre ostile, e solo dopo la morte di Vittorio Emanuele II, il successore Umberto I riconoscerà i meriti dell’opera svolta dal Nigra a favore del Regno, concedendogli motu proprio il titolo comitale, trasmissibile anche ai discendenti, e poi ancora insignendolo del Collare dell’Annunziata, massimo titolo d’ordine sabaudo che lo riconosceva Cugino del Re e infine nominandolo senatore del Regno. Al termine della carriera diplomatica, Nigra si ritirò a Venezia acquistando uno splendido palazzo sul Canal Grande; ne comprò poi un altro a Roma, presso Trinità dei Monti. A fianco di Costantino in quest’ultimo periodo apparirà la figura di una nobile veneziana, la contessa Elisabetta Francesca Albrizzi. Fotografia CDV. Fotografo: Disderi & C.ie – Parigi. 1865 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 1892 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 1892 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
— 1892 |
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere dell’Ordine Imperiale di Sant’Aleksandr Nevskij (Impero di Russia) |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Cristo (Portogallo) |
|
|
 |
Cavaliere di Grande Stella dell’Ordine del Leone e del Sole (Impero persiano) |
|
|
 |
Cavaliere di I Classe dell’Ordine della Corona Ferrea (Impero austro-ungarico) |
|
|
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine di Isabella la Cattolica (Spagna) |
|
|
 |
Cavaliere di IV classe dell’Ordine dell’Aquila Rossa (Germania) |
|
|
 |
Cavaliere di II classe dell’Ordine del Dannebrog (Danimarca) |

Arc. 1673: Lorenzo Annibale Costantino Nigra (Villa Castelnuovo, 11 giugno 1828 – Rapallo, 1º luglio 1907). Fotografia CDV. Fotografo: Disderi & C.ie – Parigi. 1865 ca.

Arc. 2416: Giovanni Lanza (Casale Monferrato, 15 febbraio 1810 – Roma, 9 marzo 1882). Di famiglia modesta, si laureò in medicina (1832) e chirurgia (1833) a Torino. Le difficoltà di accesso alla carriera accademica lo portarono a maturare un interesse scientifico per gli studi agronomici: divenne così uno dei principali animatori dell’Associazione agraria, un’organizzazione nata a Torino nel 1842 che agì come palestra di educazione politica. L’intensa attività pubblicistica sulle pagine della «Gazzetta» dell’Associazione e sul «Messaggiere torinese» lo portò a occuparsi di statistica, credito agrario, piccola proprietà contadina, rete viaria, beneficienza. Diventato uno dei maggiori esponenti del gruppo liberale piemontese, nel 1848 andò volontario in Lombardia per combattere gli austriaci e nel maggio fu eletto deputato al Parlamento subalpino schierandosi inizialmente con la Sinistra. Contrario alla ripresa delle ostilità con l’Austria, perché non voleva che ciò avvenisse senza il concorso degli altri Stati italiani, dopo la sconfitta di Novara si dichiarò per la resistenza a oltranza e votò contro la pace di Milano, che definì «un patto disonorevole per la nazione». La sua carriera parlamentare, destinata a durare ininterrottamente per quattordici legislature, conobbe una svolta con l’avvicinamento a Cavour, con il quale iniziò a collaborare durante la preparazione della guerra di Crimea. Chiamato al ministero dell’Istruzione (1855), poi alle Finanze all’uscita di Rattazzi dal governo (1858), nel 1860 fu eletto presidente della Camera. Accentuatosi intanto il suo spostamento verso la Destra, della quale divenne uno dei capi più autorevoli, dal settembre 1864 Lanza fu ministro dell’Interno nel secondo gabinetto La Marmora e si pronunciò per il trasferimento della capitale a Roma. Si dimise nell’agosto 1865 perché contrario alla tassa sul macinato proposta dal ministro delle Finanze Sella. Nuovamente presidente della Camera (1867-68 e 1869), fu nominato presidente del Consiglio nel dicembre 1869. Il suo governo, in cui entrarono tra gli altri Sella alle Finanze e Visconti Venosta agli Esteri, si pronunciò per la neutralità durante il conflitto franco-prussiano e proseguì nella riduzione delle spese in un regime di stretta economia. Nel settembre 1870, dopo la proclamazione della repubblica in Francia e superati alcuni tentennamenti dello stesso Lanza, fu decisa l’occupazione di Roma, seguita l’anno successivo dal trasferimento della capitale da Firenze a Roma. I rapporti tra l’Italia e la Santa Sede furono regolati dalla legge delle guarentigie, approvata nel maggio 1871 sempre durante il suo dicastero: un provvedimento che, per quanto respinto da Pio IX, divenne un punto di riferimento costante della politica estera italiana. Criticati sia a destra sia a sinistra, i progetti di decentramento amministrativo studiati da Lanza per correggere gli aspetti più negativi dell’ordinamento centralistico rimasero sulla carta. Nel giugno 1873 si dimise dopo il voto contrario della Camera ad alcuni provvedimenti finanziari proposti da Sella. Emarginato dalla politica nazionale, si impegnò nel governo locale con iniziative a tutela della salute pubblica. Dal 1878 fu presidente dell’Associazione costituzionale di Torino. Nel 1870 aveva ricevuto il collare dell’Annunziata, la massima onorificenza sabauda. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1865 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 1870 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 1870 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
— 1870 |

Arc. 2208: Quintino Sella (Sella di Mosso, 7 luglio 1827 – Biella, 14 marzo 1884). Laureatosi in ingegneria a Torino (1847), professore di geometria applicata alle arti nell’Istituto tecnico di Torino (1852), poi di matematica in quella università, nel 1860 entrò nella vita politica come deputato della destra del collegio di Cossato (Biella). Più volte ministro delle Finanze (1862; 1864–65; 1869–73), si pose come obiettivo il pareggio del bilancio statale, imponendo a questo scopo una rigida politica di economie e non esitando a ricorrere a provvedimenti impopolari, come l’imposta sul macinato. Anticlericale, contrario all’intervento a fianco della Francia contro la Prussia (1870), dopo la sconfitta di Napoleone III fu tra i più accesi sostenitori della presa di Roma e fu poi tra gli ispiratori della legge delle Guarentigie. La sua attività, rivolta al perfezionamento dell’unità politica, economica e morale del Regno, fu versatile e molteplice. Sollecitò l’istruzione professionale; ideò le casse di risparmio postali; propugnò lo sviluppo delle miniere sarde e costruì la carta mineraria della regione; patrocinò il riscatto delle ferrovie dell’Italia settentrionale (convenzione di Basilea del 1875). Non meno vasta e multiforme fu la sua attività scientifica. Restaurò l’Accademia dei Lincei (della quale fu socio nazionale dal 1872 e presidente dal 1874) allargandone gli interessi con l’istituzione della classe di scienze morali, storiche e filologiche e procurandole una sede storica a palazzo Corsini. Notevoli i suoi apporti nel campo della mineralogia, ove contribuì validamente allo sviluppo della cristallografia morfologica, chimica e descrittiva, studiò numerose specie minerali, delle quali talune nuove, e valorizzò i giacimenti minerari sardi incrementandone così lo sviluppo. Fondò la Società geologica italiana e, con B. Gastaldi e altri, il Club alpino italiano (1863). A lui furono dedicati il minerale sellaite e il M. Sella nell’Isola Grande della Terra del Fuoco. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1865 ca.

Arc. 1929: Quintino Sella (Sella di Mosso, 7 luglio 1827 – Biella, 14 marzo 1884). Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1865 ca.

Arc. 3124: Lorenzo Valerio (Torino, 23 novembre 1810 – Messina, 26 agosto 1865). Filantropo laico, fu il secondo di cinque fratelli fra cui Gioacchino e Cesare, anch’essi deputati. Organizzatore di cultura e uomo politico liberale, fondò e diresse il periodico “Letture popolari” (1836), che tanta influenza ebbe nel diffondere le idee liberali e democratiche presso i giovani della piccola e media borghesia piemontese, l’Associazione Agraria (dove si impose a Camillo Benso conte di Cavour) e la Società degli Asili infantili di Torino. Nel 1842 promosse ad Agliè la nascita di uno dei primi asili infantili e di un convitto per le donne del setificio. In seguito fondò e diresse l’influente quotidiano politico La Concordia e poi il quotidiano Il Diritto. Fu, in contrasto spesso durissimo col Cavour, il capo dell’opposizione nel Parlamento subalpino per molte legislature, assertore di un sanguigno liberalismo democratico o “di sinistra” che, durissimo contro i clericali, i privilegi della Chiesa, l’Austria e gli altri stati assolutistici che tenevano l’Italia sotto il loro controllo e impedivano l’Unità della nazione, metteva però insieme libertà e giustizia sociale. Era favorevole, infatti, alle imposte progressive su redditi e rendite; diversamente dal Cavour, che però da parte sua per finanziare gli investimenti statali e le riforme aveva alzato le tasse proprio alla ricca borghesia delle professioni che lo votava e alla aristocrazia da cui proveniva. Eppure, Valerio e la sinistra appoggiarono stranamente l’incostante e troppo moderato re Carlo Alberto, curiosamente più vicino a lui che al Cavour. Perciò, sia Giuseppe Mazzini, sia il Cavour, per opposti motivi lo criticavano, in quanto si illudeva di «…circondare la monarchia di istituzioni repubblicane», o addirittura di «…fare la rivoluzione con un re», come diceva Mazzini. A sua volta, giudicò sempre severamente Mazzini e i suoi continui e inconcludenti tentativi insurrezionali che mandavano allo sbaraglio tanti giovani e rafforzavano la reazione degli stati assolutistici, preferendogli di gran lunga Giuseppe Garibaldi. E infatti il Valerio fu il parlamentare di riferimento per il generale nizzardo. In seguito, quando Cavour fu ministro nel governo liberal-conservatore di Massimo d’Azeglio, e poi Presidente del Consiglio dei ministri con un programma di centro aperto alla sinistra moderata, Valerio lo appoggiò spesso, pur conservando l’intransigenza morale e lo spirito critico per i quali era conosciuto e apprezzato. Avversario implacabile, ma anche amico di Cavour, col quale si unì nel famoso “Connubio” tra lo schieramento di centro moderato e quello sinistro o liberal-democratico del Parlamento Cisalpino che dette lo slancio risolutivo all’Unità d’Italia e alla fondazione del nuovo Stato unitario, Valerio ebbe con Cavour un fitto scambio di lettere. In una di queste Cavour tiene a sottolineare la differenza politica col Valerio firmandosi con amichevole ironia «Suo devotissimo avversario, C. Cavour» (31 dicembre 1859). In un’altra lettera (10 marzo 1859) Cavour prende le distanze dalle opinioni del combattivo e impulsivo Valerio a proposito di rivoluzioni: «Non si deve respingere l’elemento insurrezionale, o, se meglio le piace, rivoluzionario, ma non si può somministrare in dosi troppo forti, sia a ragione dell’Europa, sia del proprio Paese, che non ha stomaco fatto per digerirlo, se non moderatamente». Fu eletto deputato fin dalla VIII legislatura del Regno d’Italia (la prima dopo l’Unità d’Italia). Nominato da re Vittorio Emanuele II governatore della provincia di Como, fu poi governatore straordinario delle Marche subito dopo l’Unità d’Italia, durante tale periodo stimolò la nascita di vari istituti educativi, come l’Istituto di Belle Arti delle Marche e l’Asilo d’Infanzia (che sarà intitolato a lui) in Urbino. Infine divenne senatore del Regno e prefetto di Messina, città nella quale morì colpito da malattia. Nella sua casa torinese, dove si teneva un affollato salotto di intellettuali e patrioti liberali, era stato fatto conoscere per la prima volta e musicato da Michele Novaro l’Inno di Mameli, i cui versi erano stati scritti nel 1847 dal giovane patriota Goffredo Mameli. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.
Onorificenze
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|

Arc. 1055: Conte Giuseppe Francesco Leonardo Apollinare Pasolini Dall’Onda (Ravenna, 7 febbraio 1815 – Ravenna, 4 dicembre 1876). Nato a Ravenna l’8 febbraio 1815, figlio del conte Pier Desiderio Pasolini dall’Onda e della contessa Amalia Santacroce. Giuseppe nacque alla fine del periodo napoleonico, ma già suo nonno Giuseppe (1733-1814) aveva coinvolto la famiglia nell’impresa di Bonaparte, anche grazie all’appoggio del cognato Antonio Codronchi, vescovo di Imola gradito a Napoleone. Il padre, all’epoca della sua nascita, era podestà di Ravenna. La madre, Amalia, morì quando Giuseppe aveva tre anni ed egli si formò quindi in prevalenza grazie al padre che risentì sempre di una certa nostalgia per il clima bonapartista. Costretto ad abbandonare il collegio dei gesuiti di Reggio Emilia per motivi di salute, nel 1829, rientrò a Ravenna. Proseguì studi più orientati all’agronomia sotto la guida del barone svizzero Elie Victor Benjamin Crud (Losanna, 1772 – Ginevra, 1845). Contemporaneamente coltivò le aspirazioni politiche del padre sostenendo il suo impegno militante durante i moti del 1830-31. Intraprese un grand tour in Italia, toccando la Toscana, Roma e Napoli, dove ebbe modo, tra il 1834 ed il 1835, di formarsi con l’esperto mineralogico Leopoldo Pilla e con lo zoologo Arcangelo Scacchi. A Firenze conobbe il marchese Gino Capponi ed il conte Luigi Guglielmo Cambray-Digny, di cui divenne amico. Dall’aprile del 1836 andò prima a Parigi, dove prese parte ad alcune sedute della camera dei deputati, ed in particolare a quella che discusse il caso del fallito attentato di Louis Alibaud contro re Luigi Filippo. Passò poi a Londra e in Belgio dove visitò la piana di Waterloo dove Napoleone era stato sconfitto. In Svizzera fu a Berna e Ginevra, scalando diverse cime e ghiacciai alpini, facendo poi tappa a Torino (dove conobbe e divenne amico di Alfonso La Marmora, allora giovane ufficiale d’artiglieria) e Mantova. Rientrato in patria, uno dei suoi primi incarichi pubblici fu quello di rendere omaggio per conto del comune di Ravenna al cardinale Luigi Amat di San Filippo e Sorso che nel novembre del 1837 era stato nominato dal pontefice nuovo legato per quella provincia. Il coinvolgimento di Giuseppe Pasolini in politica sembrava ormai segnato e la sua posizione fu ulteriormente consolidata quando il 22 ottobre 1843 sposò Antonietta Bassi, nipote di Gabrio Casati, dalla quale ebbe quattro figli. Dopo un breve viaggio a Parigi, la coppia si stabilì a Imola, nella villa dei Codronchi, stringendo rapporti di amicizia con l’allora vescovo della città, Giovanni Maria Mastai Ferretti. Quando il Mastai Ferretti divenne papa Pio IX, si ricordò dell’amico ravennate e lo convocò a Roma nominandolo, dall’agosto del 1847, dapprima membro della Consulta di Stato in rappresentanza della città di Ravenna e poi, dal febbraio del 1848, lo nominò nel gruppo di ministri laici che per la prima volta in quell’anno di rivoluzioni costituì un governo pontificio. Gli fu affidato il ministero del commercio, dell’agricoltura, dell’industria e delle belle arti. Su sua raccomandazione, entrò nel governo anche l’amico Marco Minghetti, ma entrambi si dimisero nel 1848 quando il papa ritirò il proprio appoggio militare ai rivoluzionari. Minghetti riparò in Piemonte presso Carlo Alberto di Savoia ma Pasolini rimase a Roma, consigliato dall’amico Diomede Pantaleoni, e fu vicepresidente dell’Alto Consiglio. Ebbe modo di dirigere la politica locale favorendo l’ascesa di Pellegrino Rossi, noto giurista ed ex ambasciatore in Francia dal passato murattiano. Quando Rossi fu assassinato il 15 novembre 1848, Pasolini si rifiutò di sostituirlo per frizioni con Pio IX che non era intenzionato a riprendere la guerra a favore dei rivoluzionari ma anzi si rifugiò a Gaeta. Per fedeltà al pontefice, ad ogni modo, lasciò Roma alla proclamazione della Repubblica Romana nel 1849 e riparò in Toscana dove, a Pisa, fu raggiunto dal suocero Paolo Bassi. Decise a quel punto di stabilirsi a Firenze dove acquistò la villa di Fonte all’Erta e la relativa tenuta. Ripresi i contatti col Minghetti, Giuseppe Pasolini rimase a Firenze sino al 1855 quando Pio IX decise di convocarlo nuovamente a Roma nel tentativo di vincere le diffidenze che avevano portato il conte ravennate ad allontanarsi dal governo della città. Alla fine del 1857, venne nominato gonfaloniere di Ravenna, ma nel contempo iniziò ad avvicinarsi sempre più alla figura di Camillo Benso, conte di Cavour, che a suo tempo aveva conosciuto a Torino tramite il La Marmora e a lasciarsi tentare dalla soluzione prevista dai Savoia per l’Italia. Nel 1859, dunque, appoggiò la seconda guerra d’indipendenza, ma rifiutò categoricamente la dittatura di Parma e Piacenza offertagli per un periodo limitato dall’amico Luigi Carlo Farini. Rivolse il suo impegno a favorire il commercio di cui a suo tempo era stato ministro, contribuendo all’abolizione delle dogane interne agli stati col processo di unificazione e propugnò la costruzione di una ferrovia che collegasse le Romagne e la Toscana al Piemonte. Nel marzo 1860, Vittorio Emanuele II lo nominò senatore e nell’autunno di quello stesso anno venne nominato governatore provvisorio della città di Milano, sostituendo Massimo d’Azeglio. Nel 1862 e nel 1863 venne nominato prefetto a Torino e nel 1866 fu primo commissario regio a Venezia. Gli venne proposto di formare un nuovo governo come primo ministro alla caduta di Urbano Rattazzi, ma preferì rimanere in disparte, aderendo invece al governo Farini come ministro degli esteri dal dicembre del 1862 al marzo del 1863. Durante questo delicato periodo, si preoccupò di stabilire dei trattati commerciali con la Francia di Napoleone III e con l’Inghilterra di John Russell, I conte di Russell, suoi amici personali. In senato si dichiarò favorevole allo spostamento della capitale da Torino a Firenze, ma dopo tale atto decise di ritirarsi dalla vita pubblica. Negli ultimi anni, dopo la morte prima del figlio Enea nel 1869 e poi della moglie nel 1873, si dedicò ampiamente allo studio delle sacre scritture. Dopo aver trascorso l’autunno del 1874 a Varese dove il figlio Pier Desiderio aveva sposato Maria Ponti, figlia della dinastia di ricchi industriali, tornò a Ravenna dove nel 1876 si sposò anche la figlia Angelica col conte Giuseppe Rasponi dalle Teste. Su pressioni del nuovo sovrano Umberto I e del cugino Giovanni Codronchi, segretario generale del ministero dell’Interno, Pasolini accettò la presidenza del senato del Regno d’Italia, rimanendo in carica dal 6 marzo 1876 sino all’ascesa della Sinistra storica. Andò un’ultima volta a Londra nell’estate del 1876 e nell’autunno a Sanremo per registrare l’atto di morte della principessa Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna, ex duchessa d’Aosta ed ex regina di Spagna, prendendo poi parte alle sue esequie presso la Basilica di Superga a Torino. Al ritorno da questo viaggio, morì a Ravenna il 4 dicembre 1876. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.
Onorificenze
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato con Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia |

Arc. 1326: Conte Giuseppe Francesco Leonardo Apollinare Pasolini Dall’Onda (Ravenna, 7 febbraio 1815 – Ravenna, 4 dicembre 1876). Fotografia CDV. Fotografo: E. Maza – Milano.

Arc. 1597: Solaro della Margarita conte Clemente (Mondovì, 21 novembre 1792 – Torino, 12 novembre 1869). Dal 1803 al 1806 studiò a Siena nel collegio De Tolomei, gestito dai padri Scolopi famoso in tutta Italia. Lì conobbe quelli che diventeranno gli esponenti maggiori della corrente cattolico-conservatrice e che gli saranno utili negli anni della maturità. Egli ebbe modo di studiare latino, francese e italiano, ma fece pochi progressi in questo campo, soffrendo sovente il distacco da casa. Quando Napoleone costrinse con un editto tutti i piemontesi a tornare in patria, per lui come per altri 34 piemontesi fu una vera festa. Continuò gli studi a Torino sotto la guida dell’abate Ricordi e nell’autunno del 1809 fu in grado di entrare all’università. Nel 1812, il 4 luglio, si laureò sotto la guida dei migliori professori di allora. In quegli anni, in opposizione alla dominazione francese, alla politica religiosa dell’Impero napoleonico, alla prigionia del Papa, alle continue guerre, dispiegò un’azione politica che lo portò a fondare nel 1812 la Società Italiana. Nel 1814 il Re torna a Torino, per lui scrive un opuscolo a stampa: Il giorno della liberazione, nel quale si trovano già gli orientamenti del suo pensiero. Con la restaurazione del 1815 i nobili tornano agli impieghi nella pubblica amministrazione, Solaro della Margarita entra in diplomazia con l’appoggio dell’Amicizia Cattolica. A 24 anni, nel 1816, entra definitivamente in diplomazia come segretario della legazione sarda a Napoli, dove era ministro della Real Corte Piemontese, il marchese Raimondo De Quesada di San Saturnino. Il 15 settembre ha inizio il suo viaggio verso Napoli, Firenze e Roma, città che lo esaltano e lo segneranno per sempre. Alla corte di Napoli si trova bene, ci sono molti piemontesi e riprende i suoi studi. Tocca a lui redigere per conto del suo ministro il Rapporto sullo stato politico del regno delle due Sicilie e considerazioni su ciò che avvenne nei primi otto mesi che seguirono la caduta del sistema costituzionale introdotto dalla rivoluzione del luglio 1820. In tale rapporto stigmatizzava l’operato del governo, la corruzione del clero, la mancanza di istruzione pubblica, e l’assenza di tutela dei cittadini da parte dello stato. Nel 1826 fu nominato incaricato d’affari alla corte di Madrid dove si distinse nella sua intransigenza nel far rispettare i diritti di successione della Casa Savoia al trono di Spagna. Tale atteggiamento lo portò a intromettersi nella vicende della Prima guerra carlista, in merito alla quale convinse il re Carlo Alberto a parteggiare per il reazionario Don Carlos contro la legittima sovrana Maria Cristina. La sua posizione divenne pertanto insostenibile a Madrid, così dovette chiedere di essere sostituito dall’incaricato d’affari Valentino di San Martino. All’inizio del 1835, in riconoscimento della sua fedeltà ai principi autoritari e antiliberali del re, fu nominato ministro plenipotenziario alla corte di Vienna, la più importante d’Europa, e nello stesso anno il 21 marzo fu nominato Ministro degli Esteri del Piemonte. Cattolico fervente, devoto al Papa e ai Gesuiti, amico dell’Austria e fermamente legato ai principi dell’autocrazia, si oppose a ogni tentativo d’innovazione politica e di conseguenza fu contestato dai liberali. Quando nel 1847 scoppiò la prima agitazione popolare in favore di riforme costituzionali, il Re si sentì obbligato a rinunciare ai suoi servizi, nonostante questi avesse condotto gli affari pubblici con abilità e prudenza evitando qualunque intromissione di Vienna negli affari interni del Piemonte. Nel 1853 fu eletto deputato per San Quirico, ma continuò a guardare al suo mandato come se fosse derivato dall’autorità del re e non dalla volontà popolare. Come leader della Destra cattolica del parlamento si oppose radicalmente alla politica di Cavour, che alla fine avrebbe portato all’unità d’Italia. Al momento della proclamazione del Regno d’Italia si ritirò dalla vita pubblica, ma non rinunciò a manifestare il suo pensiero. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di San Gregorio Magno |
|
|
 |
Gran Croce dell’Ordine di Isabella la Cattolica |
|
|
 |
Gran Cordone dell’Ordine di Leopoldo |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine supremo del Cristo |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di San Giuseppe (Granducato di Toscana) |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine della Stella Polare (Svezia) |
|
|
 |
Senatore Gran Croce S.A.I. Ordine costantiniano di San Giorgio (Parma) |
|
«Concessione 1842» |

Arc. 806: Carlo Bon Compagni di Mombello (Torino, 25 luglio 1804 – Torino, 14 dicembre 1880). Seguendo le orme del padre, avvocato generale del Re presso il Senato di Savoia, si iscrive nel 1820 alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Torino e, conseguita la laurea (1824), entra in magistratura (1826). Dopo essere stato avvocato dei poveri a Chambéry (1829-1831), è trasferito al tribunale di Aosta (1831-1832) e poi a quello di Pallanza. Nel 1834 è nominato sostituto dell’avvocato generale a Torino, carica che ricopre fino al 1843, quando è nominato giudice del Senato di Torino, la suprema corte per le province piemontesi. Sin dagli anni giovanili si interessa alle questioni religiose ed al problema del Rapporto Stato-Chiesa, propugnando, da cattolico, la distinzione tra l’autorità politica e quella religiosa. Amico di esponenti del liberalismo subalpino come Pier Dionigi Pinelli e Cesare Balbo, negli anni trenta svolge un’intensa attività pubblicistica su diversi periodici, impegnandosi in particolare sulle questioni dell’educazione popolare e infantile. Con il sostegno di autorevoli esponenti dell’aristocrazia piemontese, nel 1839 promuove inoltre la costituzione della Società per la fondazione degli asili d’infanzia, di cui diviene presidente. Parallelamente alla sua riflessione pedagogica, Bon-Compagni affronta anche tematiche costituzionalistiche, segnalandosi per l’importante saggio ” Della monarchia rappresentativa”(1848), che costituisce uno dei testi cardine del liberalismo politico piemontese. Nel 1847-1848 inizia la sua carriera politico-amministrativa. Alla fine del 1847 è nominato segretario generale del Ministero della pubblica istruzione. Al formarsi del primo Gabinetto costituzionale del Balbo, il 13 marzo 1848, gli è affidato il Ministero della pubblica istruzione. Eletto deputato nel collegio di Crescentino nelle prime elezioni del Regno di Sardegna (27 aprile 1848), ottiene nuovamente il portafoglio dell’istruzione nel Governo Alfieri di Sostegno e nel Governo Perrone (29 agosto-16 dicembre 1848). In veste di ministro, promuove il riordinamento dell’amministrazione della pubblica istruzione (legge 4 ottobre 1848, n. 818, nota come “legge Bon- Compagni”) e la legge istitutiva dei convitti nazionali di educazione, che costituiscono l’ossatura del nuovo sistema scolastico piemontese. La legge prevede un controllo governativo delle scuole di ogni ordine e grado, sia statali sia libere, attraverso il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, cui competono gli ordinamento degli studi, i piani didattici, l’approvazione dei programmi dei corsi e dei libri e dei trattati adottati. La legge elimina anche il nulla osta vescovile per la nomina dei professori. Dopo la sconfitta di Novara, il Bon-Compagni è inviato a Milano con il generale Giuseppe Dabormida come plenipotenziario per le trattative che portarono alla pace con l’Austria del 6 agosto 1849. Dopo una breve pausa e la nomina a consigliere di Stato (15 febbraio 1852), Bon-Compagni torna alla politica attiva nel secondo Gabinetto d’Azeglio, dal 21 maggio al 4 novembre 1852, come Ministro di grazia e giustizia (e Ministro ad interim dell’istruzione). Presenta al Parlamento il progetto di legge per l’istituzione del matrimonio civile, che è respinto dal Senato. Dopo essere stato sconfitto da Urbano Rattazzi nell’elezione a Presidente della Camera del maggio 1852, è confermato guardasigilli anche nel Gabinetto Cavour, dal 4 novembre 1852 al 27 ottobre 1853. È eletto Presidente della Camera il 16 novembre 1853, rimanendo in carica fino alla fine del 1856. Alla fine del 1856 è nominato da Cavour ministro plenipotenziario piemontese presso le corti di Toscana, Modena e Parma e all’inizio del 1857 si stabilisce a Firenze. Nella sua azione diplomatica, cerca di promuovere un’evoluzione costituzionale del Granducato e contrasta i tentativi della Santa Sede di ottenere, dopo il concordato del 1851, nuove concessioni in campo ecclesiastico. Al momento della rivoluzione toscana del 27 aprile 1859 e della fuga del Granduca, si adopera per garantire l’incolumità dei Lorena e l’ordinata instaurazione di un governo costituzionale. Vittorio Emanuele II, dopo aver assunto il protettorato della Toscana, conferisce al Bon-Compagni la carica di regio commissario straordinario. Fortemente impegnato per realizzare l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna, il 3 dicembre 1859 assume la nuova carica di Governatore generale delle province collegate dell’Italia centrale, ma, alla vigilia del plebiscito del 20 marzo 1860, si dimette. Rientrato a Torino, è eletto alla Camera con un programma moderato, favorevole a un rapido processo di unificazione legislativa, amministrativa e finanziaria che completi l’unificazione politica. Nella sua attività parlamentare si impegna soprattutto sulle tematiche del rapporto tra Stato e Chiesa e della “questione romana”, su cui interviene anche con alcuni saggi. Ostile al Rattazzi, il Bon-Compagni appare legato soprattutto alla destra liberale di Marco Minghetti, con il quale condivide l’aspirazione a raccogliere l’eredità cavouriana. Chiamato nell’ottobre del 1870 a far parte della Commissione incaricata di formulare il progetto di legge sulle guarentigie pontificie, cerca di imprimere alla legge un’ispirazione conciliativa, rispettosa della sovranità spirituale del pontefice. Dottore aggregato della facoltà di filosofia dal 1866 e professore di diritto costituzionale all’università di Torino dal 1874, nello stesso anno è nominato senatore. Svolge un’attività politica ancora piuttosto intensa fino alla morte, avvenuta a Torino il 14 dicembre 1880. Fotografia CDV. Fotografo: A. Meylan – Torino.
Onorificenze
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |

Arc. 2177: Gioacchino Napoleone Pepoli (Bologna, 10 ottobre 1825 – Bologna, 26 marzo 1881). Figlio del marchese Guido Taddeo Pepoli e della principessa Letizia Murat, figlia di Gioacchino Murat e quindi nipote di Napoleone Bonaparte. Nel 1844 sposò la principessa Federica di Hohenzollern-Sigmaringen, figlia di Carlo di Hohenzollern-Sigmaringen e cugina di Federico Guglielmo IV di Prussia. La sposa era sua cugina, in quanto figlia della principessa Maria Antonietta Murat. Attivo nelle rivolte del 1848, fu comandante della Guarda Civica di Bologna e contrastò l’occupazione austriaca della città. In esilio in Toscana dal 1849 al 1852, successivamente partecipò all’insurrezione nella Legazione delle Romagne del 1859 che portò all’annessione della regione al Regno d’Italia. Dal 1860 fu Commissario Generale dell’Umbria nella fase dell’annessione di tale regione nel neonato regno d’Italia. In particolare Pepoli ebbe un ruolo importante per l’area di Terni in quanto si impegnò per l’edificazione della “Fabbrica d’Armi” nel 1875 e per la creazione nella città umbra dell’attuale Istituto Tecnico Industriale. Fu poi parlamentare dalla VII alla X legislatura, ricoprendo gli incarichi di ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio nel Governo Rattazzi I (1862) e ministro plenipotenziario a Pietroburgo (1863). Dal 1866 al 1868 fu sindaco di Bologna. Il 12 marzo 1868 venne nominato Senatore del Regno. Il suo archivio personale è oggi conservato all’Archivio di Stato di Bologna. Fotografia CDV. Fotografo: Disderi & C.ie – Paris.
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Rosa (Impero del Brasile) |
|
|
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Stella nera (Regno del Dahomey) |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine della Legion d’Onore (Impero di Francia) |

Arc. 711: Raffaele Busacca dei Gallidoro (Palermo, 10 gennaio 1810 – Roma, 21 gennaio 1893). Siciliano, emigrò a Firenze fino dal 1840 dove dimorò poi stabilmente. Uomo di lettere, nei suoi scritti si occupò soprattutto di studi di economia politica. L’apprezzamento per questa sua produzione lo fece scegliere a ministro delle finanze nel 1859 durante il Governo provvisorio della Toscana esercitato da Bettino Ricasoli. Compiuta l’annessione della Toscana al Piemonte, nel 1889 Busacca fu eletto senatore al Parlamento nazionale nelle fila della maggioranza, partito a cui restò sempre fedele. Si distinse per impegno ed autorevolezza nelle questioni finanziarie o economiche. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze.
Onorificenze
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia |
|

Arc. 2939: Michelangelo Caetani, XIII duca di Sermoneta (Roma, 20 marzo 1804 – Roma, 12 dicembre 1882). Nacque a Roma nel 1804 da Enrico e Teresa de’ Rossi, divenendo membro della prestigiosa famiglia dei Caetani. Dapprima principe di Teano, ricevette il titolo di duca di Sermoneta alla morte del padre nel 1850. Come consuetudine i suoi studi si svolsero tramite insegnanti privati, anche se la spiccata curiosità lo portò ad appassionarsi negli studi degli artisti Bertel Thorvaldsen, Pietro Tenerani e Tommaso Minardi. Con questi studi affinò il suo gusto artistico, realizzando tra gli altri una serie di gioielli, imitazione dei reperti etruschi rinvenuti all’epoca, in collaborazione con l’orafo Fortunato Pio Castellani e i suoi due figli, Augusto e Alessandro; alcuni di essi sono esposti presso il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma. Nel corso degli anni successivi ampliò i suoi interessi e impegni culturali, diventando appassionato di letteratura (Dante in primis), storia e archeologia. Nel 1833 fu nominato comandante del corpo dei vigili del fuoco, carica che ricoprì per i successivi trent’anni. Oltre a questo incarico Caetani si occupò, oltre che di nutrire i propri interessi culturali, della ricostruzione del dissestato patrimonio familiare gravato, oltre che da una pessima amministrazione finanziaria, da diverse ipoteche. Con un’oculata e attenta gestione delle finanze riuscì nel suo intento. Il suo salotto letterario, particolarmente noto in Europa e America settentrionale, fu frequentato da diversi ospiti illustri, tra cui: François-René de Chateaubriand, Stendhal, Henry Wadsworth Longfellow, Franz Liszt, Honoré de Balzac, Ernest Renan, Hippolyte Taine, Federico Ozanam, André-Marie Ampère, Ferdinand Gregorovius. Intrattenne anche un rapporto epistolare con Carlo Troya e Michele Amari, con i quali condivideva un comune interesse storico e letterario. Con l’ascesa al soglio pontificio di Pio IX Caetani, come molti altri nobili romani laici, andò a ricoprire un’importante carica amministrativa, diventando nel febbraio 1848 Ministro della polizia nel governo del cardinal segretario di Stato Giuseppe Bofondi. Durante questo mandato si occupò attivamente dell’emancipazione ebraica. La sua attività politica si concluse rapidamente per sua stessa scelta. Fu particolare stimatore di Pellegrino Rossi, da lui considerato il modello politico ideale e avversò particolarmente la Repubblica Romana del 1849. Pur non aderendo ad alcun partito, rimase in contatto con il Comitato nazionale romano, confermando il suo orientamento verso un liberalismo moderato. Dopo la presa di Roma fu considerato come il più adeguato per guidare la temporanea giunta di governo della città, ricevendo successivamente il compito di riferire a Vittorio Emanuele II i risultati del plebiscito con cui i romani sancirono l’annessione della città al Regno d’Italia. Nel dicembre 1870 fu eletto nel collegio Roma V alla Camera dei deputati, rimanendo in carica per l’intera XI legislatura. Fu nominato cavaliere dell’Ordine supremo della Santissima Annunziata e iniziato alla Massoneria nella loggia Universo. Sposò Calixta Rzewuska, il cui padre era Wenceslas Seweryn Rzewuski, noto orientalista polacco; dalla moglie ebbe i figli Onorato, Ministro degli affari esteri del Regno d’Italia, ed Ersilia, archeologa e prima donna ad essere stata ammessa all’Accademia Nazionale dei Lincei. Rimasto vedovo, sposò nel 1854 Margareth Knight e poi, alla morte di questa, Harriet Ellis, figlia di lord Howard, nel 1875. Fotografia CDV. Fotografo: Ferrando – Roma.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine supremo della Santissima Annunziata |

Arc. 1929: Giuseppe La Farina (Messina, 20 luglio 1815 – Torino, 5 settembre 1863). Repubblicano, prese parte ai moti siciliani del 1837. Costretto all’esilio, si trasferì in Toscana, dove si dedicò agli studi storici. Tornato a Messina l’anno successivo grazie all’amnistia, non resistette a lungo alle persecuzioni della polizia e nei primi mesi del 1841 si trasferì di nuovo a Firenze. Nel 1847, quando il governo granducale concesse maggiore libertà di stampa, fondò il giornale «L’Alba», di orientamento democratico-sociale. All’inizio del 1848, allo scoppio della rivoluzione, fece ritorno in Sicilia. Nominato vicepresidente di un comitato di guerra a Messina e colonnello della Guardia nazionale, fu poi eletto deputato alla Camera dei comuni e fece parte della missione incaricata di offrire la corona di Sicilia al duca di Genova. Tornato a Palermo, gli fu affidato il ministero dell’Istruzione. Caduta Messina, assunse il dicastero della Guerra e della Marina, con il compito di organizzare la resistenza all’esercito borbonico e combatté egli stesso al comando di una legione universitaria. Riconosciuta ormai inutile ogni ulteriore resistenza, in aprile fuggì esule a Parigi. Tornato in Italia, a Torino, fondò la «Rivista contemporanea» e pubblicò l’opuscolo Murat e l’unità italiana, nel quale si dichiarava fortemente contrario a una candidatura di Luciano Murat al trono di Napoli. Di idee repubblicane e amico di Mazzini, se ne staccò progressivamente per diventare un sempre più convinto sostenitore del governo piemontese e della monarchia. Nel 1856 fondò la Società nazionale italiana per appoggiare presso l’opinione pubblica la politica di Cavour, di cui divenne capo di gabinetto. Superata la crisi determinata dalle dimissioni di Cavour dopo Villafranca, nel 1860 riorganizzò la Società nazionale, scioltasi l’anno precedente, e, nel contempo, si impegnò per sostenere la spedizione di Garibaldi in Sicilia, prima adoperandosi presso il governo piemontese e poi, a spedizione avvenuta, facilitando l’invio di uomini, armi e denaro. Recatosi egli stesso in Sicilia con l’incarico di affrettare con ogni mezzo l’unione dell’isola al Piemonte, fu espulso da Garibaldi, deciso a conservare la sua autonomia fino al compimento dell’impresa. Tuttavia fu di nuovo in Sicilia alla fine dell’anno, ma la violenta ostilità dei gruppi autonomisti e repubblicani lo costrinse dopo pochi mesi a lasciare nuovamente l’isola. Nel 1860 venne nominato consigliere di Stato e, nello stesso anno, fu eletto deputato, inizialmente nello schieramento filogovernativo e poi all’opposizione dopo la morte di Cavour. Partecipò ai lavori della Camera dei deputati interessandosi soprattutto alla questione della separazione tra potere civile e potere religioso. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1860 ca.

Arc. 2120: Federico Bellazzi (Milano, 26 giugno 1825 – Firenze, 11 gennaio 1868). Dopo gli studi in seminario, intraprese gli studi di giurisprudenza all’università di Pavia. Prese parte ai moti di Milano del 1848, e assunse poi l’incarico di segretario generale del governo provvisorio. In quel periodo fu redattore di due giornali di ispirazione moderata. Continuò gli studi interrotti, frequentando l’università di Torino; trasferitosi in seguito a Genova, si avvicinò alla corrente politica democratica. Prese parte alla seconda guerra d’indipendenza, e fu collaboratore di Garibaldi. Si trovò spesso in contrasto con gli ideali mazziniani, e in parte anche con Garibaldi riguardo alla spedizione verso Roma. Fu eletto deputato la prima volta nel 1863, confermando il mandato nella IX e X legislatura. Il suo impegno parlamentare fu a favore di una riforma del sistema carcerario; scrisse due libri sul tema delle condizioni di detenzione, pubblicati a Firenze nel 1866 e 1867. Nominato prefetto di Belluno, dopo un mese, alla caduta del governo Rattazzi, il nuovo ministro dell’Interni ne chiese le dimissioni: dopo il suo rifiuto, nel novembre del 1867 fu destituito. Il momento di crisi, anche economica, lo spinse dopo due mesi al suicidio. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 2768: Giuseppe Pisanelli (Tricase, 23 settembre 1812 – Napoli, 5 aprile 1879). Studiò giurisprudenza a Napoli e vi esercitò poi l’avvocatura, acquistando notevole fama. Liberale, fu eletto deputato nel 1848 al Parlamento napoletano; dopo la reazione borbonica, perseguitato per i suoi sentimenti politici, fuggì a Civitavecchia e poi a Genova insieme con Pasquale Stanislao Mancini e altri patrioti, ma fu condannato in contumacia alla pena di morte e alla confisca dei beni. Recatosi a Londra e poi a Parigi, conobbe Guglielmo Pepe e Vincenzo Gioberti. Nel 1852 si stabilì a Torino dove, in collaborazione con Mancini e Antonio Scialoja, si dedicò alla pubblicazione di un Commentario del codice di procedura civile per gli stati sardi (8 voll., 1855-63). Tornato a Napoli nel luglio 1860, fu nominato da Garibaldi ministro di Grazia e giustizia, ma rimase in carica appena ventidue giorni. Eletto deputato per il collegio di Taranto, dopo i fatti di Aspromonte e la caduta del ministero Rattazzi fu ministro di Grazia e giustizia nel ministero Farini e successivamente in quello Minghetti fino alle dimissioni di questi nel settembre 1864. Al nome di Pisanelli è strettamente legato il Codice civile emanato nell’aprile del 1865 dal suo successore al ministero di Grazia e giustizia Giuseppe Vacca, un codice che rappresenta il superamento della frammentazione giuridica preunitaria e il punto di arrivo del processo costituente che cementò l’unità del paese. Nominato consigliere di Stato, continuò a partecipare ai lavori della Camera schierato con la Destra. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1865 ca.

Arc. 2769: Michele Benedetto Gaetano Amari (Palermo, 7 luglio 1806 – Firenze, 16 luglio 1889). Patriota, storico e arabista, fratello di Emerico, tramite il padre, Ferdinando, venne fin da giovane a contatto con l’ambiente dei democratici palermitani di cui condivise inizialmente le aspirazioni separatiste. Nel 1820, per contribuire al mantenimento della famiglia, iniziò la carriera di impiegato ministeriale, ma dopo la pubblicazione della sua opera La Guerra del vespro (cui la censura impose il generico titolo Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII), sgradita al governo di Napoli, fu costretto ad andare in esilio in Francia (1842). A Parigi frequentò l’ambiente degli esuli italiani; conobbe tra gli altri Mazzini e cominciò a maturare un’impostazione politica del problema siciliano inserita in un quadro di generale rivolgimento della penisola. Dopo l’insurrezione di Palermo del 1848 e la costituzione di un governo provvisorio, rientrò in patria e fu nominato ministro delle Finanze. Il ritorno dei Borboni, tuttavia, lo costrinse di nuovo a rifugiarsi a Parigi dove intensificò i rapporti con Mazzini, collaborando alla sua attività propagandistica. Rientrò in Italia nel 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala e, pur restando fautore di un sistema di largo decentramento, appoggiò la linea cavouriana e fu tra sostenitori dell’annessione immediata al Piemonte. Nel 1861 fu nominato senatore e dal 1862 al 1864 fu ministro della Pubblica istruzione. Successivamente ricoprì altri incarichi di rilievo: fu membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione, del Consiglio superiore degli archivi, dell’Istituto storico italiano e di varie altre commissioni. Dal 1860 al 1873 insegnò Lingua e cultura araba all’Istituto di studi superiori di Firenze. A lui si deve l’organizzazione degli studi orientali in Italia ai quali diede un rilevante contributo con gli scritti sulla Sicilia musulmana. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 13 febbraio 1862 |
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 14 marzo 1864 |
 |
Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia |
|
— 24 giugno 1860 |
 |
Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
— 22 aprile 1868 |
 |
Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
— 1879 |
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere dell’Ordine Pour le Mérite (classe di pace) |
|
— 1884 |

Arc. 2115: Sebastiano Tecchio (Vicenza, 3 gennaio 1807 – Venezia, 24 gennaio 1886). Sebastiano apparteneva ad una famiglia della nobiltà rurale veneta; era figlio del conte Valerio Tecchio (1765-1823) e di Amalia Pisani (1790-1867), trisnipote del doge di Venezia Alvise Pisani. A 22 anni si laureò in giurisprudenza presso l’Università di Padova ed esercitò la professione di avvocato ad Asiago, Montagnana e Vicenza; nel 1833 entrò come Cavaliere di giustizia nel Sovrano Militare Ordine di Malta. Durante l’insurrezione di Vicenza nel 1848 abbandonò l’esercizio della professione e si dedicò interamente alla lotta politica. Fece parte della Giunta Straordinaria – il governo provvisorio che affiancava il Consiglio comunale – sostituita qualche giorno dopo dal Comitato Provvisorio Dipartimentale alle dipendenze della Repubblica di San Marco. Dopo la battaglia di Sorio egli, già contrario all’adesione a Venezia, guidò il partito filo sabaudo verso l’unione con il Regno di Sardegna, orientamento che venne deciso con il plebiscito di Vicenza del 16 maggio. Il 5 giugno fece parte della delegazione veneta che si recò presso il quartier generale di Carlo Alberto, portando i registri dei plebisciti, per concludere questa unione. Il 10 giugno però gli austriaci riconquistarono Vicenza e il Tecchio fu proscritto dal governo austriaco e rimase in esilio fino al 1866 in Piemonte, dove divenne deputato della Sinistra nel Parlamento piemontese. Fu anche Ministro dei lavori pubblici dal 1848 al 1849. Subito dopo la costituzione del Regno d’Italia divenne Presidente della Camera dei deputati nell’VIII legislatura – dal 22 marzo 1862 al 21 maggio 1863 – e fu nello stesso tempo Presidente del Comitato dell’emigrazione. Nel 1866, dopo l’annessione del Veneto al termine della terza guerra d’indipendenza italiana, egli poté ritornare nella sua città; alle elezioni del 1876 fu eletto come rappresentante della Sinistra nel collegio di Thiene, poi designato Presidente del Senato del Regno d’Italia per tutta la XIII legislatura (1876 – 1880). Nel II Governo Rattazzi fu Ministro di Grazia e Giustizia e affari di Culto. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 1878 |
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 1878 |
 |
Balì di Gran Croce di Onore e di Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta |
|
— 1853 |

Arc. 2115: Sebastiano Tecchio (Vicenza, 3 gennaio 1807 – Venezia, 24 gennaio 1886). Fotografia CDV. Fotografo: Muller. 1860 ca.

Arc. 1085: Sebastiano Tecchio (Vicenza, 3 gennaio 1807 – Venezia, 24 gennaio 1886). Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Bernieri – Torino. 1860 ca.

Arc. 2064: Marchese Gino Capponi (Firenze, 13 settembre 1792 – Firenze, 3 febbraio 1876). Ultimo esponente di uno dei rami dell’antica ed illustre famiglia fiorentina dei Capponi, fu un moderato riformatore dello stato toscano, attraverso la carica di senatore. Si interessò anche di economia, statistica e agricoltura. Allievo dell’abate Giovanni Battista Zannoni, fino dalla gioventù ebbe a cuore le materie umanistiche. Nel 1819 a Londra, ebbe l’idea, conversando con Ugo Foscolo, di un giornale letterario. Così fondò, nel 1821, assieme a Giampietro Viesseux, l’Antologia e più tardi si adoperò per l’istituzione de l’Archivio storico italiano (1842). Fu amico di Giacomo Leopardi (che gli indirizzò la celebre Palinodia ricompresa nei Canti), di Pietro Giordani, di Pietro Colletta, di Guglielmo Pepe, Giovanni Battista Niccolini, del filosofo Silvestro Centofanti, di Raffaello Lambruschini e dei migliori intellettuali del suo tempo. Fu anche un cattolico aperto a nuove esperienze di riforma. Come pedagogista, affermò la libera educazione del giovane, che non andava oppresso con i precetti, ma secondo i suggerimenti di una grande e nobile idea unificatrice. L’educazione del cuore doveva guidare quella dell’intelletto, con l’intuito e con gli esempi. L’educazione, per il Capponi, era un’arte e non una scienza. Gino Capponi viaggiò molto in Italia e in Europa e fu membro del Senato toscano dal 1848. Collaborò e promosse le principali iniziative liberali dei moderati. Fu presidente del Consiglio dal 17 agosto al 12 settembre dello stesso anno. Costretto a ritirarsi a vita privata dall’opposizione e dalla restaurazione dei Lorena, coltivò ancora di più i suoi studi storici, nonostante in vecchiaia divenisse cieco. Nel 1859 fu fautore dell’annessione della Toscana al Piemonte e venne nominato senatore dal 1860, partecipando attivamente alla vita parlamentare fino al 1864. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
— 1864 |
 |
Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato con Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 1864 |
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine di San Giuseppe (Granducato di Toscana |

Arc. 2206: Marchese Gino Capponi (Firenze, 13 settembre 1792 – Firenze, 3 febbraio 1876). Fotografia formato gabinetto 10,6 x 16,9. Fotografo: Schemboche – Torino. 1870 ca.

Arc. 1076: Pellion di Persano conte Carlo (Vercelli, 11 marzo 1806 – Torino, 28 luglio 1883). Nel 1821 era già guardiamarina. Nel 1825 partecipò alla campagna di guerra contro la reggenza di Tripoli di Barberia, distinguendosi in un’azione compiuta da alcune barche penetrate arditamente nel porto, che assalirono e bruciarono unità tripoline alla fonda. Sottotenente di vascello nel 1826, tenente di vascello nel 1831, capitano di corvetta nel 1841, di fregata nel 1848, di vascello nel 1849, ebbe per principali imbarchi le R.N. Zeffiro, Nereide, Des Geneys, Eridano e S. Michele. Al comando del brigantino Daino, il 10 giugno 1848 bombardò i forti di Caorle e di Santa Margherita. Promosso contrammiraglio nel 1859, l’anno dopo ebbe il comando della squadra sarda, alzando l’insegna sulla Maria Adelaide. Inviato nelle acque del Tirreno per sorvegliare la spedizione di Garibaldi, a Napoli ebbe dal dittatore il supremo comando del naviglio ex-borbonico, ma dovette per ordine del governo correre ad Ancona per appoggiare l’espugnazione di quella piazza eseguita dal Cialdini, e per alcuni giorni bombardò le opere difensive. Posto il blocco alla costa il 23 settembre e sospeso il 24 il bombardamento, nelle notti successive fu tentato il forzamento della piazza con imbarcazioni armate. Ripreso l’attacco generale, il 28 il presidio si arrese. Promosso viceammiraglio e nominato grande ufficiale dell’ordine militare di Savoia, il P. ritornò nel Tirreno, protesse le operazioni militari del Garigliano e si pose all’assedio di Gaeta, che il 15 febbraio 1861 si arrese. Nel marzo seguente si recò a Messina con la squadra per la capitolazione di quella piazza. Deputato nella 7ª ed 8ª legislatura per il collegio della Spezia, fu ministro della Marina nel ministero Rattazzi, finché questo non si dimise in seguito ai casi di Aspromonte. Nel maggio 1866, nominato ammiraglio comandante in capo della squadra navale con insegna sul Re d’Italia, il 22 giugno lasciò Taranto per Ancona, dove rimase alcuni giorni senza agire affatto o facendo crociere infruttuose. Ubbidendo infine a ordini imperiosi del governo, il 16 luglio il P. lasciò Ancona e il 18 iniziò il bombardamento di Lissa per procedere alla sua occupazione. L’attacco recò forti danni alle opere difensive, ma il mattino del 20, essendo stato segnalato l’arrivo della flotta austriaca, il P. si preparò al combattimento. È noto l’esito infelice di quella battaglia, che tirò addosso al Persano una tempesta di accuse. Soltanto alla fine di gennaio 1867 il Senato, costituito in Alta Corte di giustizia (il Persano era stato fatto senatore nel 1865), lo condannò alla perdita del grado, della pensione e delle decorazioni. Morì completamente dimenticato. fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato del Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Grande ufficiale dell’Ordine militare di Savoia (revocata) |
|
— 3 ottobre 1860 |
 |
Medaglia d’Argento al Valor Militare |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dell’Immacolata Concezione di Vila Viçosa (Portogallo) |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|
 |
Cavaliere di IV Classe dell’Ordine di Sant’Anna (Impero di Russia) |
|
|
 |
Medaille Commémorative de la Campagne d’Italie de 1859 (Impero francese) |

Arc. 1085: Terenzio Mamiani della Rovere (Pesaro, 19 settembre 1799 – Roma, 21 maggio 1885). Cugino di Giacomo Leopardi, entrò in contatto a Firenze nel 1827 con i circoli degli intellettuali vicini al Gabinetto Vieusseux, e sviluppò poi la propria esperienza politica partecipando ai moti del 1831 prima a Bologna, poi ad Ancona. Fu Ministro dell’Interno nel Governo provvisorio delle Province Unite Italiane (febbraio-aprile 1831). Nel 1847 con Domenico Buffa fondò a Genova il giornale La Lega Italiana, sostituito tre mesi dopo da Il Pensiero Italiano. Nel 1848 con Vincenzo Gioberti diede vita a Torino alla Società nazionale per la confederazione italiana. Ricoprì incarichi pubblici nello Stato Pontificio: Ministro degli Interni e Presidente del Consiglio. Nominato il 4 maggio 1848, il 21 giugno si aprì una crisi, con le milizie austriache che erano penetrate nel territorio pontificio. Mamiani chiese al pontefice di poter varare (con il voto del parlamento) misure eccezionali, ma il papa non glielo consentì. Mamiani si dimise, rimanendo in carica per gestire gli affari correnti fino al 2 agosto; Ministro degli Esteri (novembre-dicembre 1848) Deputato all’Assemblea costituente, eletta il 21 gennaio 1849. Alla proclamazione della Repubblica abbandonò il seggio dell’Assemblea Costituente. Dimessosi, si ritirò a vita privata. Con la restaurazione del papato però fu condannato all’esilio. Si stabilì a Genova e ottenne la cittadinanza dello Stato sabaudo. Eletto deputato nella III legislatura del Parlamento subalpino, venne riconfermato nelle tre legislature successive. Fu ministro dell’Istruzione nel terzo governo Cavour (gennaio 1860 – marzo 1861). Successivamente fu Senatore del Regno d’Italia (dal 1864) e vicepresidente del Senato. Nel 1827 fu professore di eloquenza nell’Accademia militare di Torino e dal 1857 insegnò Filosofia della storia all’Università di Torino e poi a Roma. La sua posizione, sostanzialmente moderata, ispirò una contestuale visione storico-filosofica che – alla vigilia dell’Unità d’Italia – si rifletté nella sua opera di Ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo del Regno di Sardegna presieduto da Cavour e nel primo del nuovo Regno d’Italia. Nel 1860 Mamiani approvò i nuovi programmi scolastici, che includevano l’insegnamento della religione cattolica tra le materie fondamentali. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine civile di Savoia |
|
|
 |
Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone dell’Ordine del Salvatore (Grecia) |
|
|
 |
Grande ufficiale dell’Ordine imperiale di Nostra Signora di Guadalupe (Messico) |

Arc. 3125: Giovanni Visconti Venosta, conosciuto anche come Gino Visconti Venosta (Milano, 4 settembre 1831 – Milano, 1º ottobre 1906). Giovanni proveniva da una nobile famiglia di origine valtellinese residente a Grosio. Nel 1795, Nicola Visconti Venosta (1752-1828), il nonno, si trasferì a Tirano, e il figlio Francesco (1797-1846) si spostò a sua volta nel 1823 a Milano, dove sposò Paola Borgazzi (m. 1864) e nacquero Emilio, Giovanni ed Enrico (1834-1881). Il primogenito Nicola era morto dopo pochi anni di vita. Vivevano a Milano, ma passavano tutte le estati in Valtellina nelle case di Grosio e Tirano. Nell’estate del 1846, dopo una gita a Poschiavo, il padre Francesco morì improvvisamente all’età di 48 anni. Egli affidò la direzione degli studi letterari dei suoi figli a Cesare Correnti, pubblicista e uomo politico. I due fratelli frequentavano l’Istituto Boselli di Milano, ma la scuola politica dei due giovani era la casa di Correnti. Fu proprio lì che Giovanni venne a contatto con i libri di Berchet e Mazzini che lesse avidamente infiammandosi d’amor patrio per l’Italia e d’avversione per il dominio straniero e divenendo, insieme al fratello, un forte sostenitore di Mazzini. Il 4 settembre 1847 Carlo Bartolomeo Romilli, nuovo arcivescovo ambrosiano, fece il solenne ingresso in città. Il fatto che la carica fosse ricoperta da un italiano – dopo che per ventotto anni era stata dell’austriaco Gaisruck – suscitò gli entusiasmi della popolazione, già infiammata dalle parole del nuovo papa Pio IX, il quale si era espresso a favore dell’Unità d’Italia. Le autorità austriache tentarono di contenere i festeggiamenti, e la sera dopo ci fu un violento scontro che causò un morto e alcuni feriti. Il 5 settembre Giovanni era a Tirano, dove si recava subito dopo la fine della scuola. Pochi giorni dopo ricevette la visita di Cesare Correnti e del medico Romolo Griffini, i quali misero i Venosta al corrente degli eventi e pianificarono con loro altre azioni. Fu così che Giovanni, ancora adolescente, li seguì per i casolari dello Stelvio, dove il gruppo informava i contadini della situazione, e si divertì a scrivere su qualche muro Viva l’Italia, Viva Pio IX. Nel 1848 si arrivò alle Cinque giornate di Milano. Giovanni era troppo giovane per parteciparvi attivamente, come invece fece il fratello Emilio. Visse però in prima persona i sentimenti delle Cinque giornate, come la gioia di veder sventolare il tricolore sulla guglia del Duomo. In quel periodo, molti dovettero però abbandonare le proprie abitazioni perché occupate dagli Austriaci. I Visconti Venosta erano fra quelli: furono ospitati dalla signora Garnier che gestiva un collegio femminile. Gli Austriaci se ne andarono e a Milano venne formato un governo provvisorio, nel quale era occupato anche Correnti. Dopo le vittorie di Goito e la resa di Peschiera arrivarono le brutte notizie: la defezione del re di Napoli, il ritiro delle truppe papaline e la caduta di Vicenza. La vittoria stava per sfuggire. L’imminente ritorno degli Austriaci costrinse le famiglie dei notabili milanesi a cercare rifugio in Svizzera, così la famiglia di Giovanni, escluso Emilio perché arruolato a Bergamo con i Garibaldini, si trasferì a Bellinzona. In quel clima di sconfitta che nasceva tra gli esuli, si diffondeva largamente l’idea di Mazzini e l’azione di Garibaldi. Giovanni si recava spesso a Lugano in visita al fratello, lì conobbe e vide parecchie volte Mazzini in persona. Nell’ottobre del 1848, Giovanni tornò con la famiglia a Milano, una Milano zeppa di soldati croati. Quando si recò nella casa di Tirano, trovò la stessa situazione. Durante l’inverno tornò a Milano, iniziava un decennio di resistenza contro gli Austriaci. Dopo uno scoraggiamento generale, ci furono uomini valenti che guidavano gli animi dei giovani universitari, fra i quali Giovanni (iscritto all’Università di Pavia). Nel 1850 Emilio lo introdusse per la prima volta in via Bigli, nuova sede del celebre salotto di Clara Maffei. Giovanni avviò una frequentazione pressoché quotidiana, imitando il fratello, della casa di Clara, cui fu legato da una duratura amicizia. Fu nel salotto Maffei, sempre più orientato in senso monarchico e sempre più convinto dell’aiuto fondamentale che il Piemonte poteva dare alla causa risorgimentale, che nelle menti dei due giovani si offuscarono le idee di Mazzini lasciando prevalere quelle di Cavour. Oltre al salotto Maffei, dove aveva potuto conoscere anche Alessandro Manzoni, Giovanni frequentava la casa di Carmelita Fé Manara (vedova di Luciano), Dandolo e Carcano dove organizzava delle ricreazioni consistenti in declamazioni di parodie e rappresentazioni comiche di marionette. Le sue parodie erano troppo evidenti quindi le rappresentazioni furono vietate e a Giovanni fu tolto il passaporto. La più famosa parodia che egli scrisse è La partenza del Crociato, scritta a Tirano nel 1856. Servì a diffondere le nuove idee dei liberali l’istituzione di corpi di pompieri volontari in Valtellina attuata da Giovanni Visconti Venosta (che si prestava istruttore) e dall’amico, sindaco di Tirano, Giovanni Salis nel 1854. In quel decennio fece inoltre molti viaggi con il fratello: visitò tutta l’Italia e perfino Parigi. Nei salotti milanesi incontrò Laura D’Adda (allora sposata Scaccabarozzi), che, rimasta vedova anni più tardi, sposò. Dopo il funerale di Emilio Dandolo, nel 1859, i due Visconti-Venosta furono sospettati e costretti a rifugiarsi in Piemonte. Tuttavia, le modalità delle due fughe furono alquanto diverse. Se Emilio riuscì a partire in tempo, avvertito da Rosa Bargnani, Giovanni andò incontro a peripezie d’ogni tipo. Prima di lasciare la città meneghina aveva, infatti, deciso di aspettare tre bresciani cui consegnare dei contrassegni necessari per emigrare. Nella notte la polizia fece irruzione in casa sua: Giovanni fuggì da una porta laterale e corse a chiedere aiuto. Pensò di rivolgersi a Costantino Garavaglia, ma era appena stato arrestato. A casa Carcano non ebbe miglior fortuna. Fatta svegliare allora Clara Maffei, che contattò immediatamente Carlo Tenca, Visconti Venosta si avvide di essere senza soldi. A pochi metri di distanza si trovava la casa di Laura d’Adda Salvaterra Scaccabarozzi; fu lei a fornirgli il denaro necessario, mentre Tenca lo accompagnò fuori dalla città. La parte più avventurosa nell’evasione dai territori austriaci fu sicuramente quella finale. Giunto al Ticino, il fuggitivo si imbatté casualmente in un amico patriota che conosceva il Commissario della dogana. Siccome in quei giorni si parlava di prolungare la ferrovia a cavalli di Tornavento, i due ebbero l’idea di spacciare il Nostro per l’ingegnere incaricato di dirigere i lavori. Dopo aver promesso al Commissario una raccomandazione per il figlio, Giovanni ottenne il permesso di andare a fare una ricognizione sulla riva opposta del fiume, e fu così libero. Ora che i fratelli erano a Torino, Giovanni ricominciò a frequentare casa Correnti, il quale era esule già da tempo. Ebbe l’onore di parlare con Giuseppe Garibaldi e con Cavour che lo nominò membro di una commissione consultiva per la Lombardia, alla quale Giovanni faceva anche da segretario. Qualche mese dopo la fuga in Piemonte, Giovanni tornò in Valtellina dove lo aspettava l’incarico di Commissario regio durante l’insurrezione popolare locale. Egli si fece notare per la sua abilità diplomatica nel contrapporre pacificamente le idee di Cavour a quelle di Garibaldi. Dopo l’armistizio di Villafranca, Giovanni lasciò l’incarico valtellinese e si recò a Milano, questa volta una Milano in festa: specialmente il 16 febbraio 1860, giorno in cui il re Vittorio Emanuele II, seguito da Camillo Cavour, entrò solennemente nella città. Con l’Unità d’Italia termina la vita del cospiratore e inizia quella del conservatore. Giovanni, da quel momento in poi, si comporta esclusivamente da abile diplomatico. Nel 1865 viene eletto per una legislatura al Parlamento, come deputato del primo collegio di Milano, ciò nonostante preferisce lasciare la carriera politica al fratello. Ad ogni modo, non stette con le mani in mano, lo dimostra un sommario elenco delle sue cariche: Presidente dell’Associazione costituzionale, Socio fondatore della Società storica lombarda, Commissario per i monumenti di Sondrio, Presidente del Museo del Risorgimento, Presidente del Consiglio di amministrazione del Collegio Reale delle fanciulle, Presidente dell’Associazione generale degli operai, Consigliere d’amministrazione della società per lo sviluppo delle imprese elettriche, Consigliere della Società anonima d’assicurazioni contro gli infortuni, Vicepresidente della Società telefonica dell’Alta Italia, Consigliere dell’amministrazione della Società Mediterranea, Presidente della Commissione di soccorso per l’emigrazione veneta, Presidente della Società degli autori ed editori, cofondatore del quotidiano La perseveranza, Sovrintendente scolastico a Milano, assessore e consigliere del Comune di Milano, assessore dell’Amministrazione provinciale della Provincia di Sondrio. Nel 1890 venne nominato consigliere delegato dell’Anonima Grandine, azienda di assicurazioni fondata da Pio Pontremoli. La moglie Laura D’Adda non gli diede figli, ma tanto amore. Si spense nel 1904, quando Giovanni stava ripubblicando Ricordi di Gioventù, alla cui stesura la moglie aveva collaborato. Due anni dopo, il 1º ottobre 1906, Giovanni Visconti Venosta morì a Milano dopo una breve malattia, all’età di 75 anni. I funerali si svolsero in San Fedele, con larga partecipazione del popolo, ma venne sepolto a Grosio, nella tomba di famiglia. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 2415: Francesco Domenico Guerrazzi (Livorno, 12 agosto 1804 – Cecina, 23 settembre 1873). Si laureò in giurisprudenza a Pisa nel 1824, ma appena un anno più tardi esordì nella carriera letteraria con le Stanze alla memoria di Lord Byron (1825), un’esaltazione del poeta inglese conosciuto a Pisa poco tempo prima, la cui influenza sulla sua produzione fu sempre molto forte. Nel 1827 uscirono, sempre a Livorno, i quattro volumi di una delle sue opere maggiori, La battaglia di Benevento, un romanzo storico in cui già si rivelavano le qualità che restarono pressoché costanti nello scrittore: un vivacissimo e sfrenato patriottismo; la ricercatezza linguistica; uno stile convulso, baroccheggiante, pur con venature classicistiche; una predilezione per le tinte cupe e macabre che lo avvicinarono al romanzo nero inglese. Acceso democratico, fondò nel 1829 il giornale «Indicatore livornese» e si impegnò nei moti risorgimentali, subendo a più riprese arresti e condanne: durante i mesi di prigionia a Portoferraio scrisse le Note autobiografiche (pubblicate postume, 1899) e portò quasi a termine l’Assedio di Firenze, uno dei suoi romanzi storici di maggiore successo. A questo periodo della sua vita risale anche La serpicina, una riuscita satira della giustizia umana e della vita forense che fu pubblicata tra gli Scritti (1847). Nel 1848-49 fu tra i protagonisti della rivoluzione in Toscana: nel febbraio 1849, fuggito Leopoldo II, costituì un governo provvisorio con Giuseppe Montanelli e Giuseppe Mazzoni e il mese successivo fu eletto capo del potere esecutivo, esercitando di fatto una dittatura personale. Al ritorno del granduca fu processato e condannato a 15 anni di prigionia e, durante la sua detenzione nel carcere delle Murate a Firenze, scrisse Apologia della vita politica di F.D.G. scritta da lui medesimo (1851), una lunga autodifesa fortemente polemica verso i moderati e il sistema giudiziario toscano. La pena gli fu successivamente commutata nell’esilio in Corsica, da dove fuggì nel 1859 per raggiungere Genova. Qui soggiornò fino al 1862. Fu eletto nel 1860 deputato nel primo Parlamento nazionale, dove sedette per circa dieci anni, sempre schierato tra i banchi dell’opposizione contro le forze moderate. Nell’ultimo periodo della sua vita, mentre si distaccava dal dibattito politico, Guerrazzi mantenne intensa la sua produzione letteraria con il romanzo Il buco nel muro (1862), la sua opera artisticamente più notevole, L’assedio di Roma (1863-65) e Il secolo che muore (pubblicato postumo per intero nel 1885), continuazione poco riuscita del romanzo del 1862. Tra i suoi romanzi storici, per i quali divenne popolare tra i contemporanei, si ricordano anche Veronica Cybo e Isabella Orsini, entrambi compresi nella citata raccolta degli Scritti, Beatrice Cenci (1853) e Pasquale Paoli (1860), dedicato a Garibaldi. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 2121: Francesco Domenico Guerrazzi (Livorno, 12 agosto 1804 – Cecina, 23 settembre 1873). Fotografia CDV. Fotografo: V. Fondi – Pistoia. 1865 ca.

Arc. 1930: Luigi Settembrini (Napoli, 17 aprile 1813 – Napoli, 4 novembre 1876). Intrapresi inizialmente gli studi giuridici, si dedicò in seguito, come allievo di Basilio Puoti, agli studi letterari e nel 1835 conseguì la cattedra di eloquenza nel liceo di Catanzaro. Entrato in contatto con gli ambienti mazziniani aderì alla setta dei Figliuoli della Giovine Italia, fondata da Benedetto Musolino, e nel 1839 fu arrestato per cospirazione. Liberato nel 1841, visse dividendosi tra l’insegnamento privato e l’impegno politico. Nel 1847 pubblicò, anonimo, l’opuscolo antiborbonico Protesta del popolo delle Due Sicilie, ma i sospetti della polizia caddero in breve tempo su di lui e per evitare un nuovo arresto riparò a Malta. Tornò a Napoli nel 1848, dopo la concessione della Costituzione, e fu per breve tempo capo dipartimento nel ministero dell’Istruzione. Dimessosi, fondò con Silvio Spaventa, Cesare Braico, Filippo Agresti e altri, la società segreta Unità italiana, della quale fu nominato presidente. Nel 1849, dopo la restaurazione borbonica, venne nuovamente imprigionato e nel 1851 fu condannato a morte. Commutatagli la pena nell’ergastolo, trascorse otto anni nel carcere di Santo Stefano per poi essere destinato, nel 1859, con altri patrioti, alla deportazione negli Stati Uniti. Grazie all’aiuto del figlio, ufficiale della marina mercantile inglese, riuscì a raggiungere l’Irlanda, dove rimase fino al 1860. Tornato in Italia si stabilì prima a Torino poi a Firenze, dove pubblicò due manifesti nei quali esortava il Mezzogiorno a unirsi alla restante Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II. Sempre nel 1860 ebbe la cattedra di Letteratura latina e greca nell’università di Bologna, alla quale peraltro rinunziò non appena l’ingresso di Garibaldi a Napoli gli consentì di tornare nella sua città natale, dove assunse la carica di ispettore generale della Luogotenenza. Nel 1862 iniziò a insegnare Letteratura italiana all’università di Napoli. Nel frattempo fondava l’Associazione unitaria costituzionale, di cui fu a lungo presidente, collaborando con assiduità al giornale da questa pubblicato «L’Italia», diretto dal 1863 al 1865 da De Sanctis. Negli anni seguenti venne sempre più allontanandosi dalla politica nonostante continuasse a condurre un’appassionata battaglia a favore delle tradizioni locali del Mezzogiorno, che vedeva travolte dalle scelte accentratrici della classe dirigente. Nel 1873 fu nominato senatore. Frutto del suo insegnamento furono le Lezioni di letteratura italiana (3 volumi, 1866-72), animate da un forte impegno civile, nelle quali Settembrini ripercorre attraverso i secoli il cammino della produzione letteraria italiana al fine di stimolare i contemporanei ad acquistare coscienza del loro passato e a farsi attori consapevoli e responsabili del proprio destino. Il suo nome resta soprattutto legato alle Ricordanze della mia vita, un itinerario autobiografico pubblicato postumo nel 1879 con la prefazione di De Sanctis. Nell’opera, destinata anch’essa a esaltare l’impegno patriottico e civile, Settembrini auspica un risveglio della cultura napoletana e presenta il movimento risorgimentale come l’unica forza in grado di abbattere il potere oscurantista della Chiesa e dei Borbone. Fotografia CDV. Fotografo: Vegliante – Napoli. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|

Arc. 2493: Rinaldo Ruschi (Pisa, 7 febbraio 1817 – Pisa, 3 febbraio 1891). Si laureò in Matematica presso l’Università di Pisa. Fin da giovane svolse una notevole attività pubblica, in ambito militare, sociale e politico. Nel 1847 fece parte della Guardia civica pisana, con il grado di capitano comandante di compagnia; partecipò con il battaglione universitario toscano alla campagna militare in Lombardia; catturato dagli Austriaci, fu in seguito liberato. La posizione assunta durante la fase finale dei moti del 1848 fu ambigua. Quando il 12 aprile 1849, qualche settimane dopo la sconfitta di Novara, Francesco Domenico Guerrazzi perse il potere in Toscana e il Municipio di Firenze (moderato) prese gradualmente il controllo delle città, inclusa Pisa, Ruschi dichiarò assieme a Rodolfo Castinelli e al senatore Centofanti di operare per conto della giunta di Firenze. Negli ultimi anni del Granducato di Toscana, ebbe diversi incarichi: fu sovrintendente del Conservatorio dei poveri orfani (1848-63), succedendo nell’incarico al padre Giovan Battista, e diresse le attività all’Ospizio di Menicità e alla Cassa di Risparmio. Fu membro del Consiglio di Prefettura di Pisa e fece parte, come segretario, della commissione per la riforma della Amministrazione dei fiumi e dei Fossi della Provincia di Pisa (1859-60). Nelle fasi di passaggio del Granducato al Regno d’Italia, la sua attività politica assunse una dimensione nazionale: membro della Consulta di Stato del Granducato di Toscana istituita nel maggio 1859 dal Governo provvisorio, venne eletto deputato dell’Assemblea dei rappresentanti toscani nell’agosto 1859 da uno dei collegi di Pisa. Fece quindi parte della deputazione toscana che si recò a Torino nel settembre di quello stesso anno, per coordinare la procedura di unione col Regno di Sardegna. In seguito all’Unità fu eletto deputato nel 1860, 1861 e 1865; anche come membro del Parlamento nazionale, si occupò di promuovere le opere pubbliche legate alla sua terra d’origine: tra quelle di maggior rilievo, la regimentazione delle acque della provincia pisana, e in particolare del Padule di Bientina. Alle elezioni del 1867 fu sostituito da Luigi Sanminiatelli, candidato proposto dalle consorterie della nuova capitale. L’anno successivo (il 12 marzo 1868) il re Vittorio Emanuele II lo nominò Senatore del Regno, e un mese dopo cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia, istituito quell’anno. In qualità di senatore partecipò agli accesi dibattiti per l’abolizione della pena di morte (1875). L’impegno nella attività del parlamento nazionale non lo allontanò dalla vita politica locale: fu commissario tecnico del progetto del Nuovo teatro notturno, consigliere provinciale (1865-1869) e consigliere comunale a Pisa (1865-1869) e a Calci (1874-1881). Dall’agosto 1868 fino al 1877 ebbe la carica di presidente della Accademia di belle arti di Pisa. Ruschi fu socio di numerose accademie e istituzioni culturali e scientifiche, sia locali che di rilievo nazionale, fra le quali si possono citare la Società aretina di scienze, lettere e arti (socio corrispondente, 1844), l’Accademia dei Georgofili e l’Accademia valdarnese del Poggio di Montevarchi (1856). Molto presente nell’élite politico-letteraria del Granducato, collaborò con Giuseppe Montanelli alla diffusione della stampa clandestina in Toscana, ma i due si allontanarono in seguito l’atteggiamento assunto dal Ruschi durante i moti del 1848. Fu inoltre amico di Gino Capponi e di Giuseppe Giusti. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza |
|
|
 |
Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia |

Arc. 752: Angelo Brofferio (Castelnuovo Calcea, 6 dicembre 1802 – Minusio, 25 maggio 1866). Studente di giurisprudenza a Torino, tentò il teatro con successo: la sua tragedia Eudossia fu rappresentata al Teatro Carignano nel maggio 1825 e discreta fortuna ebbe tutta la sua produzione giovanile. Entrato in contatto con l’ambiente letterario milanese, romano e napoletano, Brofferio si dedicò sempre più intensamente al teatro e alla poesia pur avendo iniziato a esercitare l’avvocatura a Torino. Coinvolto nella congiura massonica dei Cavalieri della libertà, venne arrestato nell’aprile 1831 e scarcerato dopo alcuni mesi di detenzione. Nel 1835 iniziò la collaborazione al «Messaggiere del commercio» (poi, dal 1837, «Messaggiere torinese»), alternando a scritti polemici composizioni drammatiche. Molto fortunata fu la sua raccolta delle Canzoni piemontesi, uscita a Lugano nel 1839. Facilmente orecchiabili, scritte in un dialetto ricco e vivace, le canzoni esprimevano le sue convinzioni democratiche di chiara derivazione letteraria (Alfieri e Foscolo), con nuove venature sociali e un originale spirito polemico. Fautore tra i primi di una costituzione in Piemonte, fu eletto al Parlamento nell’aprile 1848 e rimase deputato fino alla morte con due brevi interruzioni nel 1853 e nel 1860. Abilissimo oratore, esponente di spicco della sinistra costituzionale piemontese, dopo l’armistizio Salasco sostenne la necessità di riprendere la guerra conto l’Austria. Avversario di Cavour, ne contrastò la politica economica e le alleanze internazionali: fu decisamente contrario alla guerra di Crimea e all’alleanza con la Francia. Nelle consultazioni del 1857, che videro il successo dei clericali, suscitò grande entusiasmo la sua rielezione nel collegio più aristocratico di Torino. Sempre all’opposizione, si batté per l’abolizione di tutti i privilegi, contro la pena di morte, la censura e per la libertà di stampa. Fu contrario allo spostamento della capitale a Firenze per paura che venisse accantonato il trasferimento a Roma. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |

Arc. 1053: Angelo Brofferio (Castelnuovo Calcea, 6 dicembre 1802 – Minusio, 25 maggio 1866). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 2493: Luigi Guglielmo conte di Cambray-Digny (Firenze, 8 aprile 1820 – San Piero a Sieve, 11 dicembre 1906). Esponente della nobiltà liberale fiorentina, ne condivise nel 1848 la crescente resistenza dapprima alla formazione del governo Guerrazzi-Montanelli, e poi, dopo la fuga del granduca, alla dittatura di Guerrazzi. Nel 1849, fu tra i fautori della restaurazione granducale in Toscana. Negli anni seguenti si dedicò soprattutto agli studi e alla pratica agraria, fondando a S. Piero a Sieve un opificio per la costruzione di strumenti e macchine agricole. Tornato alla politica attiva nel 1859, fu inizialmente contrario a una dichiarazione di annessione immediata al Piemonte, ma fu poi conquistato alle direttive di Cavour. Nel 1860 fu nominato senatore nel Parlamento subalpino e fu uno dei principali esponenti della Destra toscana, ispirandone dal 1866 anche un giornale, la «Gazzetta d’Italia». Sindaco di Firenze dal 1865 al 1867, fu poi ministro ad interim dell’Agricoltura, industria e commercio dal 27 ottobre al 28 novembre 1867 e ministro delle Finanze dal 27 ottobre 1867 al 14 dicembre 1869. Durante il biennio in cui rimase in carica condusse una politica di drastica riduzione del disavanzo statale: promosse leggi sulla riscossione delle imposte dirette, sulla contabilità e l’amministrazione dello Stato; rese esecutiva la tassa di macinazione dei cereali; creò la Regia cointeressata del monopolio dei tabacchi e istituì le Intendenze provinciali di finanza. Vicepresidente del Senato negli anni 1871-72, fu tra i sostenitori del ministero Minghetti (1873-1876). Dal 1872 al 1878 fu presidente della Banca nazionale toscana e in tale veste condusse le trattative tra governo e rappresentanti delle banche perché giungesse in porto la legge sulla circolazione bancaria del 1874. Liberista, antisocialista, fu un convinto sostenitore di Crispi, e appoggiò la repressione dei Fasci siciliani. Nel 1898 fu tra quanti invocarono lo stato d’assedio in Toscana e lo scioglimento delle organizzazioni popolari e l’anno successivo appoggiò i disegni di legge reazionari proposti dal governo Pelloux. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Cavaliere dell’Ordine di S. Stefano (Granducato di Toscana) |
|
|
 |
Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro |
|
— 23 gennaio 1860 |
 |
Commendatore dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro |
|
— 20 aprile 1863 |
 |
Grande ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro |
|
— 21 maggio 1865 |
 |
Gran cordone dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro |
|
— 14 dicembre 1869 |
 |
Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
— 31 dicembre 1868 |
 |
Gran Croce dell’Ordine del Nicham Iftikar (Tunisia) |

Arc. 2416: Isacco Artom (Asti, 31 dicembre 1829 – Roma, 24 gennaio 1900). Nato da una delle famiglie ebraiche più importanti della città di Asti, intraprese gli studi universitari a Pisa dove venne a contatto con l’ambiente risorgimentale. Nel 1848, prese parte alla guerra contro l’Austria, arruolandosi nel battaglione universitario e partecipando alla battaglia di Curtatone e Montanara. Dopo un periodo di malattia, riprese gli studi universitari presso la facoltà di giurisprudenza a Torino dove si laureò e conobbe Costantino Nigra diventando suo intimo amico. Tra il 1850 ed il 1859 collaborò alle testate giornalistiche dell’“Opinione” e del “Crepuscolo”. Dopo la sua assunzione presso il Ministero degli esteri, venne chiamato da Cavour, come uomo di fiducia presso la sua segreteria. Nel 1862 venne inviato a Parigi e nel 1867 a Copenaghen come segretario di Legazione. Rientrò in Italia nel 1870 ricoprendo fino al 1876 la carica di segretario generale del Ministero degli esteri. A seguito della caduta della destra storica e delle conseguenti dimissioni del ministro Emilio Visconti Venosta, si dimise volontariamente dalla carica. Fu nominato senatore il 15 maggio 1876 e fu considerato uno dei maggiori politici della Destra. Il suo discorso funebre, nell’aula del Senato, fu pronunciato dall’ex ministro Visconti Venosta.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza (1 barretta) |
|
|
 |
Medaglia commemorativa dell’Unità d’Italia |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere della Legion d’Onore |
|
|

Arc. 2723: Luigi Passerini Orsini de’ Rilli (Firenze, 31 ottobre 1816 – Firenze, 13 gennaio 1877). Avviato agli studi classici, si dedicò in giovane età allo studio della storia e della genealogia. Grande storico ed erudito in diverse discipline umanistiche, vantava una discendenza antica, radicata nel XII secolo. Rivendicava, con fierezza, la sua profonda passione per l’araldica e le genealogie. Scherzosamente asseriva che questa sua innata passione, l’aveva ereditata dai suoi avi e la portava nel sangue. Svolse inoltre un ruolo attivo in politica partecipando alla guerra d’indipendenza del 1848 con un gruppo di 500 toscani. Del Quarantotto in Toscana ha lasciato un prezioso, quanto dettagliato diario degli avvenimenti che vanno da 18 marzo 1848 al 24 novembre 1849. Fin dal 1856 fu uno dei direttori dell’Archivio di Stato di Firenze. Per un breve periodo, nel 1861, fu eletto come parlamentare nell’ottava legislatura del Regno d’Italia, la prima dello stato unitario, rimanendo in carica per tre anni. A partire dal 1871, divenne anche prefetto della Biblioteca Nazionale di Firenze, dove su mandato del governo, come direttore, ricoprì l’incarico dal 1871 al 1874, quando per motivi di salute, fu costretto a dimettersi. Membro della Consulta araldica e della regia Deputazione di storia patria, collaborò con l’Archivio storico italiano e il Giornale storico degli archivi toscani. Lasciò, alla Biblioteca di Firenze, la sua ricca libreria privata, con i suoi manoscritti ed il suo archivio. Materiale composto da circa 7000 pezzi. Nella sua carriera di storico e genealogista dal 1839 collaborò alla redazione delle Famiglie celebri italiane di Pompeo Litta e fu anche continuatore dell’opera tra il 1852 e il 1873 con Federico Odorici e Federico Stefani.Studiò storia fiorentina medievale e fu autore di numerose genealogie delle famiglie fiorentine. Iniziò anche a scrivere un’edizione critica delle opere di Niccolò Machiavelli. Dopo una lunga malattia morì nella sua Firenze nel 1877. Fotografia CDV montata su cartoncino. fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
— 19 luglio 1871 |

Arc. 2731: Giuseppe Natoli Gongora, barone di Scaliti (Messina, 9 giugno 1815 – Messina, 25 settembre 1867). Figlio di Giacomo Natoli Gongora di Scaliti, colonnello di cavalleria nel reggimento cacciatori Forìe di Messina del Reale Esercito delle Due Sicilie, e di Emanuela Cianciolo. Il nonno Bartolomeo fu senatore cittadino e proconsole di Messina. Fu barone di Scaliti, grande ufficiale dell’Ordine Mauriziano e gran cordone dell’Ordine al merito civile e militare di San Marino, sposò Maria Cardile, da cui nel 1846 ebbe il suo unico figlio, Giacomo. Rifiutò la carica di giudice per non dover lavorare alle dipendenze dello Stato borbonico. Avvocato, giurista e banchiere, massone (fu Gran maestro aggiunto della massoneria del Grande Oriente d’Italia) ed esponente del liberalismo siciliano, entrò nel circolo intellettuale e politico di Francesco De Luca. Partecipò alla Rivoluzione siciliana del 1848 e fu eletto deputato di Messina al neocostituito Parlamento siciliano insieme a Giuseppe La Farina. Dopo la capitolazione siciliana (15 maggio 1849), riparò a Torino. Nel 1853, fu tra i finanziatori della Banca Nazionale degli Stati Sardi. Finanziò inoltre i fratelli Orlando per la realizzazione degli omonimi cantieri navali in Liguria. In quegli anni furono frequenti i suoi incontri, a Parigi e Milano, con il compositore Giuseppe Verdi. Collaborò con Giacomo Macrì alla realizzazione di una rete di cospiratori nell’isola e sostenne attivamente la campagna di Garibaldi in Sicilia, entrando anche a far parte del suo governo dittatoriale il 27 giugno 1860 (dopo le dimissioni di Francesco Crispi) come segretario di stato per gli Affari Esteri e per il Commercio in sostituzione del barone Casimiro Pisani, fino al 10 luglio. Dopo il plebiscito rivestì la carica di governatore di Messina dal dicembre 1860 e il 18 febbraio 1861 fu eletto deputato nel nuovo Parlamento “italiano” che il 17 marzo proclamò la nascita del Regno d’Italia. Sia pure per pochi mesi fu chiamato a reggere il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nell’ultimo governo Cavour) e il 31 agosto lasciò la Camera perché nominato senatore del Regno da Vittorio Emanuele II. Dopo la morte di Cavour (6 giugno 1861) assunse l’incarico di prefetto, prima a Brescia (giugno 1861- maggio 1862) e spostato, dopo disordini di piazza, per pochi giorni a Siena quando preferì tornare ai lavori parlamentari. Tornò al governo nel settembre 1864 come Ministro della Pubblica Istruzione nel primo Governo La Marmora (1864-1865) e per alcuni mesi ebbe anche l’interim dell’interno. Si spense a Messina il 25 settembre 1867, vittima della epidemia di colera, dove era giunto per portare conforto ai propri concittadini. Fotografia CDV. Fotografo: C. Fratacci – Napoli. 1865 ca.
Onorificenze
 |
Grand’ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata |
|
|
 |
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia |

Arc. 2209: Guarini conte Giovanni (Forlì, 6 luglio 1826 – Forlì, 7 novembre 1889). Il Guarini compì gli studi presso le scuole pie nel collegio Tolomei di Siena e nel 1845 sposò la nobile Maddalena Matteucci. Erede di una delle più facoltose famiglie di possidenti terrieri della Romagna, si occupò ben presto di questioni agrarie e più in generale di problemi connessi allo sviluppo economico e sociale della sua terra di origine. Socio ordinario dell’Accademia dei Georgofili e della Società d’orticoltura di Firenze, sperimentò egli stesso nei suoi possedimenti alcune innovazioni tecniche relative alle coltivazioni agricole e fece costruire nuovi modelli di case coloniche. Come presidente della Cassa dei risparmi orientò la politica dell’istituto verso operazioni di credito a medio e lungo termine per farne una sorta di “levatrice” dello sviluppo economico locale. Dal 1860, dopo esser stato gonfaloniere della città nel 1859, il Guarini fu eletto consigliere comunale e provinciale di Forlì e nel medesimo anno fu chiamato a far parte della Deputazione provinciale in qualità di deputato effettivo, cariche nelle quali venne confermato fino alla morte. Del Consiglio provinciale fu nominato segretario nel 1866 ed eletto vicepresidente dal 1870 al 1875 e presidente dal 1876 fino alla morte. Nel novembre 1870 il G. fu eletto deputato nel collegio di Forlì, dove al ballottaggio sconfisse nettamente il candidato della Sinistra O. Regnoli. Alla Camera il Guarini sedette a destra e si distinse soprattutto per una serie di interventi, concentrati fra il 1877 e il 1880, con i quali cercò di difendere gli interessi e le aspettative della sua regione di provenienza. Il 26 novembre 1884, su diretta segnalazione del Fortis, venne premiato con la nomina a senatore. Presidente nel 1883 della Commissione ordinatrice del concorso agrario regionale che si tenne a Forlì, nel 1888 fu tra i promotori della visita di Umberto I nella Romagna repubblicana e socialista. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia |

Arc. 3169: Giorgio Sonnino(Alessandria d’Egitto, 17 febbraio 1844 – Roma, 29 novembre 1921). fratello minore del più famoso fratello Sidney, si laureò in giurispondenza all’Università di Pisa.Fu senatore del Regno d’Italia nella XVI legislatura e ricoprì la carica di sindaco di San Miniato tra il 1876 e il 1882. Fu Reggente della Banca nazionale della sede di Firenze, Reggente della Banca toscana di credito di Firenze, Membro del Consiglio superiore del lavoro e Comitato permanente del lavoro (22 dicembre 1904-28 febbraio 1913. Dimissionario) e infine Socio della Società geografica italiana (12 maggio 1867). Fotografia CDV. Fotografo: G. Marzocchini – Livorno.
Onorificenze
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|

Arc. 1053: Liborio Romano (Patù, 27 ottobre 1793 – Patù, 17 luglio 1867). Figlio primogenito di una nobile e antica famiglia, studiò dapprima a Lecce e poi, giovanissimo, prese la laurea in giurisprudenza a Napoli e ottenne subito la cattedra di Diritto Civile e Commerciale all’Università partenopea. S’impegnò presto nella politica, frequentando ambienti carbonari e abbracciò quindi gli ideali del Risorgimento italiano, fu membro della Massoneria. Nel 1820 prese parte ai moti, per cui venne destituito dall’insegnamento, imprigionato per un breve tempo e poi inviato prima al confino e poi in esilio all’estero. Nel 1848 tornò a Napoli e partecipò agli avvenimenti che condussero alla concessione della costituzione da parte del re Ferdinando II di Borbone. Ma il 15 maggio 1848, dopo il sangue versato a Napoli nei moti liberali che avevano risentito di una certa improvvisazione, Romano fu nuovamente imprigionato. Egli chiese quindi al ministro di polizia la commutazione della pena della detenzione in quella dell’esilio. La sua richiesta venne accolta. Romano dovette perciò risiedere in Francia, a (Montpellier e poi a Parigi), dal 4 febbraio 1852 al 25 giugno 1854. Nonostante le sue idee, nel 1860, mentre con la spedizione dei Mille si apriva la fase finale del regno delle Due Sicilie, Liborio Romano venne nominato dal re Francesco II prefetto di Polizia. Il 14 luglio dello stesso anno il Romano divenne anche ministro dell’interno e direttore di polizia. In tale difficile fase, mentre l’Esercito meridionale cominciava a risalire la penisola, Romano iniziò a prendere contatti segreti con Camillo Benso conte di Cavour e con Giuseppe Garibaldi per favorire il passaggio del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia. Il contatto con Cavour avvenne tramite l’ambasciatore Sardo e l’ammiraglio Persano. Fu lo stesso Liborio Romano a spingere il re Francesco II di Borbone a lasciare Napoli alla volta di Gaeta senza opporre resistenza, per evitare sommosse e perdite di vite umane. Il giorno dopo, il 7 settembre 1860, andò a ricevere Giuseppe Garibaldi, che giungeva a Napoli quasi senza scorta, direttamente in treno, senza che vi fosse alcun tipo di contrasto e accolto da festeggiamenti di piazza. Francesco II, nel suo proclama emanato da Gaeta l’8 dicembre 1860, affermò: “I traditori pagati dal nemico sedevano accanto ai fedeli nel mio consiglio” e Liborio Romano, in quel periodo non solo era presente in quel consiglio, ma rivestiva pure incarichi importati. Romano ottenne da Garibaldi la conferma nel ruolo di ministro dell’Interno che tenne quindi fino al 24 settembre 1860, data in cui entrò a far parte del Consiglio di Luogotenenza, ove rimase fino al 12 marzo 1861. Nel gennaio 1861 si tennero le prime elezioni politiche per il costituendo Regno d’Italia, e Liborio Romano venne eletto deputato, vincendo in otto diverse circoscrizioni. In quegli anni presenta una serie di interpellanze e denunce. La sua esperienza parlamentare ebbe fine il 25 luglio 1865 e Romano si ritirò nella sua terra d’origine ove rimase fino alla morte, avvenuta il 17 luglio 1867 nella natia Patù, dove riposa, nella cappella di famiglia di fronte al Palazzo Romano. Fotografia CDV. Fotografo: J. H. Gairoard – Napoli. 1860 ca.

Arc. 2769: Giovanni Prati (Campo Lomaso, 27 gennaio 1814 – Roma, 9 maggio 1884). Frequentò il Liceo Ginnasio di Trento, il quale fu intitolato alla sua persona il 6 marzo 1919. Successivamente intraprese gli studi di legge a Padova che, ben presto, abbandonò per dedicarsi alla poesia. Pubblicò a Padova la prima raccolta, Poesie, nel 1836. Decise di trasferirsi a Milano nel 1841; qui conobbe Alessandro Manzoni e pubblicò l’Edmenegarda, una novella sentimentale in endecasillabi sciolti che ebbe un grande successo di pubblico ma fu stroncata dalla critica. A Milano pubblicò nel 1843 i Canti lirici, canti per il popolo e ballate; nel 1844 dette alle stampe Memorie e lacrime e Nuovi canti. Dal 1845 al 1848 soggiornò a Padova, a Venezia e a Firenze. Nel 1848, recatosi a Torino, si mostrò sostenitore della Monarchia Sabauda. Negli anni che precedettero la prima guerra di indipendenza, fu sostenitore di Re Carlo Alberto di Savoia: per questo motivo, gli austriaci lo espulsero dal Regno Lombardo-Veneto(anche Milano e Venezia all’epoca appartenevano all’Impero),e il governo di Firenze del Granducato di Toscana gli rifiutò l’asilo politico. Furono questi i tempi più difficili e tormentati della sua vita perché professava i suoi ideali a favore della Monarchia Sabauda in una terra ostile e tra uomini decisamente avversi. Legato da ideali alla Monarchia Sabauda tornò a Torino, dove la sua fedeltà fu premiata con la nomina del Re Vittorio Emanuele II di Savoia a storiografo della Corona. Nel 1861 nel Governo Cavour (VIII legislatura del Regno d’Italia) venne eletto Deputato nel Parlamento Italiano con Torino divenuta Capitale del Regno d’Italia. A Torino presso il Caffè Fiorio in via Po, frequentato tra gli altri anche da Camillo Benso conte di Cavour, Massimo D’Azeglio, Urbano Rattazzi, Gabrio Casati, discuteva le sorti della neonata Italia. Nel 1865 seguì il Governo Unitario a Firenze divenuta Capitale, dove conobbe Mario Rapisardi, Niccolò Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Francesco Dall’Ongaro, Terenzio Mamiani e altri. Nel 1871 si trasferì a Roma divenuta Capitale d’Italia, nel 1876 divenne Senatore nel governo Depretis I XIII legislatura del Regno d’Italia nel 1878 divenne membro del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1878 il Ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis governo Cairoli I fondò a Roma l’Istituto Superiore di Magistero del quale Giovanni Prati divenne direttore. Durante questi anni la sua poesia aveva continuato a fluire con la pubblicazione del poema Armando (1868, una parte del quale era apparsa nel ’64), degli oltre 500 sonetti di Psiche (1876) e delle liriche raccolte in Iside (1878). Morì a Roma nel 1884. Nello stesso anno fu fondata a Bologna la Società Giovanni Prati, nata con l’obiettivo di difendere la lingua e le idee italiane nelle terre irredente di Trento, Trieste, Gorizia, Istria e Dalmazia. Fotografia CDV. Fotografo: Le Lieure – Torino. 1860 ca.

Arc. 399: Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872). Ragazzino sveglio e vivace, già adolescente sente vivo e forte l’interesse per le tematiche politiche, soprattutto quelle concernenti l’Italia, vero e proprio destino annunciato. Nel 1820 è ammesso all’Università; avviato in un primo tempo agli studi di medicina, passa a quelli di legge. Poco dopo la laurea, entra a far parte della cosiddetta Carboneria, ossia una società segreta con finalità rivoluzionarie. Per dare un valore sempre più propulsivo alle sue idee, inizia una collaborazione con “L’indicatore genovese”, giornale che si professava letterario a mò di copertura, presto soppresso dal governo Piemontese il 20 dicembre. Detto fatto, si sposta e comincia a collaborare invece all'”Indicatore livornese”. Intanto, parallelamente all’attività pubblicistica, svolge una ben più concreta attività di persuasione fra la gente, viaggiando in Toscana e cercando aderenti alla Carboneria. Una violenta delusione è però pronta ad attenderlo. Il 21 ottobre, a Genova, è tradito e denunciato alla polizia quale carbonaro. Il 13 novembre è arrestato e chiuso in carcere nella fortezza di Savona. Non essendo emerse prove a suo carico gli fu offerto o di vivere al “confino” in qualche sperduto borgo del regno sotto la sorveglianza della polizia o di andare in esilio a Marsiglia: decide per la seconda soluzione: esce dal Regno Sardo il 10 febbraio 1831. L’animo è provato ma non certo abbattuto. L’attività di lotta prosegue. Si reca così a Ginevra, dove incontra alcuni esuli; passa a Lione e vi trova alcuni proscritti italiani; con essi parte per la Corsica, sperando di portare aiuto agli insorti dell’Italia centrale. Rientrato in Francia fonda a Marsiglia la Giovine Italia che si propone di costituire la Nazione “Una, Indipendente, Libera, Repubblicana”. Fa stampare una lettera aperta a Carlo Alberto, appena salito al trono per esortarlo a prendere l’iniziativa della riscossa italiana. Grazie allo spirito profondamente religioso e alla dedizione verso lo studio degli avvenimenti storici, egli aveva compreso come solo una stato di tipo repubblicano avrebbe potuto permettere il raggiungimento degli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità propri della Rivoluzione Francese. Per questo formulò il programma più radicale fra tutti quelli dibattuti nel corso del Risorgimento italiano e, fedele alle sue idee democratiche, avversò la formazione di uno stato monarchico. Nel 1832, a Marsiglia, inizia la pubblicazione della rivista “La Giovine Italia”, che ha come sottotitolo “Serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell’Italia, tendenti alla sua rigenerazione”. L’iniziativa ha buon successo e ben presto L’associazione Giovine Italia si estende anche nell’ambito militare. Nel Regno Sardo sono condannati a morte vari affiliati. Per la sua attività rivoluzionaria, Mazzini è condannato a morte in contumacia il 26 ottobre dal Consiglio Divisionale di Guerra di Alessandria. Il 2 febbraio 1834 fallisce il tentativo di invasione della Savoia. Mazzini ripara nella Svizzera, si accorda con patrioti esuli di tutte le nazionalità oppresse; Favorisce la costituzione delle società, più o meno segrete, Giovine Polonia, Giovine Germania, che, collegate con la Giovine Italia formano la Giovine Europa, tendente a costituire le libere nazioni europee affratellate. Il Gran Consiglio di Berna espelle Mazzini che aveva anche promosso la Costituzione della Giovine Svizzera. Nell’ottobre, con i fratelli Ruffini, è a Grenchen. Seguono numerosi spostamenti. Il 28 maggio è arrestato a Soletta; poco dopo la Dieta Svizzera lo esilia in perpetuo dallo Stato. Si reca a Parigi, dove il 5 luglio è arrestato; è rilasciato a patto che parta per l’Inghilterra. Nel 1837 gennaio giunge a Londra. E’ in miseria: riceverà più tardi modesti compensi per la collaborazione a giornali e riviste inglesi. L’8 settembre 1847, da Londra, sottoscrive una lunga lettera a Pio IX indicandogli ciò che dovrebbe e potrebbe fare poi si reca a Parigi dove detta lo statuto dell’Associazione Nazionale Italiana. Il 7 aprile giunge a Milano liberata dagli austriaci. Fonda il quotidiano “L’Italia del popolo”, nel quale chiarisce le proprie idee sul modo di condurre la guerra. Nell’agosto lascia Milano per l’arrivo degli austriaci, raggiunge Garibaldi a Bergamo e lo segue in qualità di alfiere. L’8 agosto ripara in Svizzera, dove rimarrà fino al 5 gennaio 1849. Il 9 febbraio 1849 è proclamata la Repubblica Romana. Goffredo Mameli telegrafa a Mazzini: “Roma Repubblica, venite!”. Il 5 marzo entra in Roma “trepidante e quasi adorando”. Il 29 marzo è nominato triumviro. Il 30 giugno, di fronte all’impossibilità di resistere oltre in Roma, respinta la sua proposta di uscire con l’esercito e trasferire altrove la guerra, si dimette con gli altri triumviri perché dichiara di essere stato eletto a difendere, non ha sotterrare la Repubblica. Entrati i nemici, parte il 12 luglio per Marsiglia. Si reca quindi a Ginevra e successivamente a Losanna, dove è costretto a vivere nascostamente. Nel 1851 torna nel gennaio a Londra, dove si fermerà fino al 1868, salvo numerose visite di settimane o di pochi mesi nel continente. Fonda nella capitale inglese la società “Amici d’Italia” per estendere simpatie alla causa nazionale. Focolai di protesta e rivoluzione, intanto, si spandono dappertutto. E’ il 6 febbraio 1853 quando, ad esempio, a Milano è represso nel sangue un tentativo insurrezionale contro gli austriaci. Dopo alcuni anni ancora fuori dall?Italia, nel ’57 torna a Genova per preparare con Carlo Pisacane l’insurrezione che dovrebbe poi scoppiare nel capoluogo ligure. La polizia non riesce ad arrestare Mazzini che, per la seconda volta, sarà condannato a morte in contumacia (28 marzo 1858). Londra, ancora una volta accoglie l’esule in pericolo. Da lì scrive a Cavour per protestare contro alcune dichiarazioni pronunciate dallo statista e si oppone, sostenuto da numerosi altri repubblicani, alla guerra all’Austria in alleanza con Napoleone III. Escluso dall’amnistia concessa all’inizio della guerra, si reca clandestinamente a Firenze. La speranza è quella di poter raggiungere Garibaldi per l’impresa dei Mille cosa che si avvera solo nel 1861, grazie ad un’adunanza di mazziniani e garibaldini in soccorso a Garibaldi in difficoltà in Sicilia e Napoli. L’11 agosto parte per la Sicilia sperando in un movimento insurrezionale. A Palermo prima di scendere dalla nave, è dichiarato in arresto; il 14 agosto è portato al carcere del forte di Gaeta. Il 14 ottobre è liberato, in virtù dell’amnistia concessa ai condannati politici per la presa di Roma. Dopo brevi soste a Roma, Livorno, Genova, riprese la via dell’esilio. E’ a Lugano alla fine di ottobre; ritorna a Londra alla metà di dicembre. 1871 Il 9 febbraio esce a Roma il numero – programma del settimanale “La Roma del popolo”. Il 10 febbraio lascia Londra per Lugano. Nel novembre promuove il Patto di Fratellanza tra le società italiane operaie. 1872 Giunge in incognito a Pisa il 6 febbraio, ospite dei Nathan-Rosselli, dove muore il 10 marzo. Il 17 successivo si svolgono a Genova i funerali solenni, vi partecipano, secondo i calcoli della polizia, circa centomila persone. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 941: Arc. 399: Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872). Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 1012: Arc. 399: Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872). Fotografia CDV. Fotografo: Schreiber & Son – Philadelphia. 1860 ca.

Arc. 1436: Aurelio Saffi (Forlì, 13 ottobre 1819 – Forlì, 10 aprile 1890). Ebbe una formazione universitaria giuridica a Ferrara, ma iniziò l’attività politica nella sua città natale, mettendosi a disposizione per l’amministrazione delle istituzioni locali. Nel suo bagaglio culturale, oltre a Mazzini, figura anche l’abate Antonio Rosmini, filosofo e propugnatore dell’idea neoguelfa che prevedeva l’Italia organizzata come una federazione di Stati, governata dal Papa. Forlì allora era retta da un Cardinal legato, in quanto parte dello Stato Pontificio; Aurelio Saffi fu consigliere comunale e segretario della Provincia nel biennio 1844-1845. Si accostò presto alle posizioni mazziniane, tanto che nel turbolento anno 1849 partecipò alla principale operazione politica che coinvolse Mazzini: la nascita della Repubblica Romana. Nella capitale il potere fu abbandonato da Pio IX, fuggito a Gaeta dopo violente proteste popolari nel novembre 1848, e affidato ad un’Assemblea Costituente che, secondo Mazzini, avrebbe dovuto ricalcare le teorie politiche democratiche più avanzate, all’epoca rappresentate dagli Stati Uniti d’America. Alla vicenda romana, Saffi prese parte prima come deputato all’Assemblea Costituente (eletto a Forlì) e come ministro degli Interni, poi come componente del Triumvirato a capo del potere esecutivo, assieme a Carlo Armellini e allo stesso Mazzini. Tale esperienza politica fu di breve durata, poiché la nuova Repubblica cadde nel luglio 1849. Ritiratosi in esilio a Civezza, in Liguria, raggiunse successivamente Mazzini in Svizzera, per poi trasferirsi con lui di nuovo a Londra. Ritornò in patria solo nel 1852, per pianificare una serie di moti rivoluzionari che ebbero luogo a Milano l’anno successivo. Fallito il progetto e condannato in contumacia a vent’anni di carcere, riparò ancora in Inghilterra. A Londra Aurelio sposò, nel 1857, Giorgina Janet Craufurd, da allora nota come Giorgina Saffi (Firenze, 1827 – San Varano di Forlì, 1911) figlia dello scozzese Sir John Craufurd e della nobile Sophia Churchill, ardente mazziniana ed esponente del movimento femminista risorgimentale italiano. Nel 1860 fu a Napoli, per ricongiungersi nuovamente con Mazzini. Nel 1861 venne eletto deputato al parlamento del nuovo Regno d’Italia nel collegio di Acerenza. Dopo pochi anni, nel 1864, tornò a vivere a Londra dove rimase fino al 1867, quando si stabilì definitivamente nella villa della campagna di San Varano (una frazione di Forlì). Nell’agosto del 1874 fu arrestato a Rimini insieme con altri esponenti repubblicani con l’accusa di partecipazione ad un’insurrezione di stampo antimonarchico. Fu prosciolto nel dicembre dello stesso anno. Saffi, in realtà, è costantemente stato sostenitore di una concezione municipalista della vita politica. A Forlì promosse la fondazione del Circolo Giuseppe Mazzini, di cui fu anche il primo presidente. Il Circolo poi divenne un centro di iniziativa politica noto a livello nazionale. Nel 1877 si trasferì a Bologna, dove cominciò la carriera di docente di Diritto pubblico presso la locale Università. Nel frattempo si occupò della memoria storica dell’amico Mazzini, morto il 10 marzo 1872, curandone gli scritti e la loro pubblicazione. Morì nella sua casa a 70 anni. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 1045: Daniele Manin (Venezia, 13 maggio 1804 – Parigi, 22 settembre 1857). Nacque Daniele Fonseca, terzogenito di Pietro Antonio Fonseca (1762-1829) (alcuni storici ritengono che il cognome della famiglia fosse Medina) e Anna Maria Bellotto. La famiglia del padre aveva origini ebraiche: il padre si convertì al cattolicesimo, assumendo il cognome del padrino di battesimo, un fratello del noto Ludovico Manin, ultimo doge della repubblica di Venezia. L’ex podestà di Venezia Pietro Orsi e alcuni storici affermano che a convertirsi fu il nonno e non il padre di Manin, e che il nome ebraico della famiglia fosse Medina e non Fonseca. Il suo primo insegnante fu il padre Pietro, un avvocato di idee repubblicane e democratiche. Il giovane Manin formò la sua cultura nella biblioteca paterna in campo Sant’Agostino, dove abitavano, leggendo in lingua originale i classici della letteratura e della filosofia del tempo sia italiani che europei, come John Locke, gli illuministi, con prevalenza del sensismo, Étienne Bonnot de Condillac, Jean-Jacques Rousseau, Claude-Adrien Helvétius, Giovan Pietro Vieusseux e l’Antologia o le Istituzioni di logica, metafisica ed etica del sensista italiano Francesco Soave. Manin era poliglotta e conosceva, oltre all’italiano, il francese, il tedesco e l’inglese, l’ebraico, il greco e il latino. Giovanissimo talento, pubblicò le sue prime opere già da adolescente, incluso un trattato giuridico sui testamenti (1819) e soprattutto un commentario dei frammenti greci del Libro di Enoch, nel quale Manin mostrò la sua abilità di analizzare le antiche fonti greche, latine ed ebraiche (1820). Si iscrisse a soli quattordici anni all’Università di Padova e ottenne la laurea in giurisprudenza nel luglio del 1821 a diciassette anni; successivamente si dedicò all’attività forense nella città natia. Nel 1824 sposò Teresa Perissinotti (1795-1849), appartenente ad una famiglia aristocratica veneziana con ampie proprietà terriere a Venezia, Mestre e “Terraferma”, e nel trevigiano. Sempre nel 1824 compì la traduzione delle Pandette di Giustiniano e nel 1847 scrisse un ampio trattato sulla Giurisprudenza veneta, che fu tradotto anche in lingua francese. Imprigionato nelle carceri austriache per la sua attività patriottica, fu liberato a furor di popolo il 17 marzo 1848 assieme all’altro patriota Niccolò Tommaseo. Alla successiva proclamazione della Repubblica di San Marco ne fu eletto Presidente e, durante l’assedio della città nel 1848-49, diede prova d’intelligenza, coraggio e fermezza. Contribuì a fondare la Società nazionale italiana. Costretto all’esilio dal ritorno degli austriaci, visse poi a Parigi dando lezioni di lingua italiana e conservando l’amore per la patria italiana. Gli anni di esilio furono però funestati prima dalla morte della moglie Teresa (uccisa dal colera a Marsiglia, appena giunti in Francia) e poi della figlia Emilia, malata di epilessia. Manin morì il 22 settembre 1857 a Parigi. Le ceneri di Daniele Manin tornarono a Venezia il 22 marzo 1868, circa due anni dopo la liberazione della città al termine della Terza guerra di indipendenza e vennero salutate con una festa funebre in piazza San Marco, preceduta da una processione funebre, lungo la Riva degli Schiavoni. Fu sepolto all’esterno della basilica di San Marco sul lato sinistro, perché secondo il diritto napoleonico era ormai proibita la sepoltura in chiesa. Fotografia CDV. Fotografo: Verry – Paris.

Arc. 2569: Rosolino Pilo (Palermo, 15 luglio 1820 – San Martino delle Scale, 21 maggio 1860). Fu il promotore con Giuseppe La Masa della rivolta palermitana che provocò la Rivoluzione indipendentista siciliana del 1848 contro il regime borbonico. Quando i liberali si impadronirono della città, tenne il comando delle batterie e delle artiglierie palermitane, sino al momento in cui la città fu costretta a capitolare. Il 14 gennaio 1848 venne costituito il Comitato Generale della Rivoluzione, che venne diviso in quattro sotto comitati. Rosolino venne chiamato a far parte del secondo sotto comitato della guerra, presieduto dal Principe di Pantelleria. Il generale Giacomo Longo, direttore generale delle artiglierie al Ministero di Guerra e Marina, conferì a Pilo la nomina a Comandante delle artiglierie di Palermo il 28 marzo 1848. Pilo partecipò attivamente ai combattimenti: il 16 gennaio combatté presso il Monte Pietà e, poi, fuori Porta Maqueda. Il 4 febbraio le truppe rivoluzionarie conquistarono il forte di Castellammare; 24 giorni dopo continue lotte, l’esercito borbonico lasciò Palermo e alla sua liberazione seguì la gran parte dell’isola e si cominciò a discutere sul tipo di governo da mettere a capo. I nobili chiedevano un regno indipendente con la Costituzione del 1812, Pilo, invece, con Giacinto Carini votò una commissione che aveva il compito di esaminare il problema costituzionale e di proporre la forma di governo più adatta. In questo periodo, Pilo fu uno degli ispiratori del giornale “La Democrazia” e manifestò le sue idee repubblicane. Con la repressione e il fallimento dei moti nel maggio 1849, Rosolino Pilo partì esule verso Marsiglia, e poi per Genova. Qui, frequentò Giuseppe Mazzini, grazie all’amicizia con la Famiglia Orlando, riallacciò i contatti con gli altri esuli siciliani e conobbe e si innamorò di Rosetta Borlasca. Durante i moti falliti del 1853 a Milano, Rosolino Pilo era a Torino per coprire la fuga dei cospiratori che cercavano di espatriare. Qui conobbe Giuseppe Piolti, agente mazziniano del quale non condivideva i propositi di agitazione di piazza. Pilo era più propenso alla guerriglia e, nell’estate 1856, iniziò i contatti con Carlo Pisacane per aprire un fronte rivoltoso in Sicilia. Ai primi di dicembre dello stesso anno Rosolino Pilo salpò da Genova su un piroscafo inglese diretto a Malta con l’intento di unirsi alla rivolta capeggiata dal barone Francesco Bentivegna. Ma, arrivato a Malta, seppe del fallimento del tentativo e non poté far altro che ritornare a Genova. A Genova incontrò Carlo Pisacane aderendo con entusiasmo al suo progetto di guerriglia che sarebbe partito da Sapri per sollevare la Campania e giungere a Napoli. Un primo tentativo si ebbe il 6 giugno 1857, si imbarcò su un battello diretto verso l’isola di Montecristo con diversi guerriglieri e col carico delle armi utili alla spedizione, precedendo la partenza di Carlo Pisacane. L’intesa con Pisacane prevedeva il loro ricongiungimento sull’isola. Durante la traversata, però fu travolto da una tempesta che lo costrinse, per alleggerire lo scafo, a gettare fuoribordo l’armamento. Pilo dovette far ritorno a Genova per avvisare gli altri cospiratori e non compromettere l’intera missione. Il tentativo definitivo iniziò con la partenza di Pisacane e i suoi, il 25 giugno. Pilo si occupò nuovamente del trasporto delle armi e partì il giorno dopo a bordo di alcuni pescherecci, con l’accordo di unirsi a Pisacane successivamente. Ma, anche questa volta, per sfortuna o per inesperienza come navigatore, Pilo finì per sbagliare rotta e, non potendo più raggiungere Pisacane, tornò a Genova lasciandolo senza i rinforzi e le armi che erano a lui necessarie. A Genova, Pilo e Mazzini, non poterono altro che attendere fiduciosi notizie dal Sud Italia. Il governo piemontese, nel frattempo, attuò misure repressive nei confronti dei cospiratori e Mazzini dovette far ritorno a Londra, mentre Pilo riuscì a rifugiarsi a Malta. Alla notizia di insurrezioni popolari a Palermo e le prime voci di una spedizione di Giuseppe Garibaldi alla guida dei Mille, il 28 marzo 1860, Rosolino, insieme a Giovanni Corrao, si affrettò a tornare nella sua Sicilia dove sbarcò il 10 aprile a Messina incontrandosi qui con esponenti della borghesia locale ostile ai Borboni. Quindi iniziò una marcia verso Palermo, e giunto a Carini il 18 aprile arringò i patrioti locali, e quindi dopo la loro sconfitta in quello che passò alla storia come lo scontro di Carini. Quindi si ritirò il 20 aprile a Piana dei Greci, ed ivi organizzarono un gruppo di volontari di un migliaio di uomini. Dopo la battaglia di Calatafimi, ricevette una lettera di Garibaldi che lo invitava a svolgere azioni diversive contro le truppe borboniche. Così fece e con Giovanni Corrao impegnò le truppe borboniche a San Martino delle Scale, contemporaneamente alla colonna garibaldina che marciava su Palermo, avanzò dal lato opposto verso la città, ma, in uno scontro a fuoco, fu colpito da una pallottola alla nuca, cadde sei giorni prima della conclusione dell’Insurrezione di Palermo del maggio 1860, presso il Monte delle Neviere di San Martino delle Scale. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Bernieri – Torino. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Medaglia d’oro al valor militare |
|
«Morto sul campo combattendo con valore a San Martino di Monreale il 21 maggio 1860.» |

Arc. 2415: Carlo Pisacane, duca di San Giovanni (Napoli, 22 agosto 1818 – Sanza, 2 luglio 1857). Di nobile famiglia, avuta notizia dei moti di Milano partecipò alla prima guerra d’Indipendenza (1848). Nel marzo 1849 P. raggiunse Roma, dove era stata proclamata la Repubblica; nominato capo di Stato maggiore, durante la difesa della città ebbe dei contrasti con G. Garibaldi su questioni organizzative. Prese le distanze anche dalle idee di G. Mazzini, criticato in quanto fautore di un semplice mutamento nella forma del governo: non prospettando alcun miglioramento nelle condizioni di vita dei ceti popolari, tale cambiamento era ritenuto insufficiente a suscitare l’interesse delle masse alla rivoluzione nazionale. Pisacane affermò il primato della questione sociale su quella politica: scopi ultimi della rivoluzione dovevano essere l’abolizione della proprietà privata, dei mezzi di produzione e del principio di autorità; solo il socialismo, cioè una completa riforma dell’ordine sociale, avrebbe spinto il popolo alla battaglia. Pur rimanendo critico nei confronti delle idee di Mazzini, nel 1855 organizzò insieme a lui un’azione rivoluzionaria nel Mezzogiorno che, collegata all’attività cospirativa del comitato napoletano di G. Fanelli, scongiurasse la soluzione moderata e monarchica della questione italiana perseguita dal Piemonte. Un primo tentativo di raggiungere le coste del napoletano fallì (9 giugno 1857); il 25 giugno con una ventina di uomini fece rotta su Ponza. Liberati i prigionieri reclusi nel castello, con circa trecento di essi sbarcò a Sapri il 28 giugno. Non avendo trovato traccia della sperata insurrezione, cui avrebbe dovuto lavorare il comitato napoletano, Pisacane e i suoi cercarono invano di far sollevare le popolazioni di Torraca e Casalnuovo (30 giugno); circondati e decimati dai soldati borbonici nei pressi di Padula, si aprirono un varco verso Buonabitacolo, quindi verso Sanza, ove furono attaccati dai contadini. Ferito in combattimento, si uccise. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 1083: Orso Teobaldo Felice Orsini (Meldola, 10 dicembre 1819 – Parigi, 13 marzo 1858). Figlio di un ex ufficiale napoleonico, fece i suoi primi studi a Imola. Nel 1836, ritenuto colpevole dell’uccisione di un domestico dello zio, fu dapprima condannato a sei mesi di carcere e poi rimesso in libertà. Laureatosi in giurisprudenza a Bologna nel 1843, in quegli anni fu tra i protagonisti della cospirazione repubblicana cittadina e promotore delle attività delle sette segrete. Arrestato nel 1844 per aver redatto un piano rivoluzionario, fu condannato alla galera a vita ma fu liberato nel luglio 1846 grazie all’amnistia concessa da Pio IX. Recatosi in Toscana, partecipò alle agitazioni dei gruppi più radicali e pubblicò uno scritto anonimo, Alla gioventù italiana (1847), nel quale esortava all’azione e alla battaglia per la libertà le nuove generazioni. Nella guerra del 1848 partecipò volontario alla difesa di Venezia e fu eletto poi deputato alla Costituente romana. Inviato commissario a Terracina e Ancona, vi ristabilì l’ordine dopo il verificarsi di alcuni episodi di rivolta. Successivamente fu ad Ascoli Piceno dove represse il brigantaggio. Caduta la Repubblica romana, Orsini si recò a Nizza dove entrò in amicizia con l’intellettuale russo Aleksandr Herzen e si dedicò alla scrittura delle Memorie e documenti intorno al governo della Repubblica romana (1850). Nella prima metà degli anni Cinquanta, in accordo con Mazzini, con il quale aveva stretto forti legami politici, organizzò la fallita insurrezione del febbraio 1853 a Milano e i moti rivoluzionari di Sarzana (1853) e della Valtellina (1854), anch’essi risoltisi in un insuccesso. Incaricato da Mazzini di organizzare una nuova insurrezione a Milano, fu arrestato nel dicembre 1854 a Hermannstadt, in Ungheria. Prigioniero nel castello di Mantova, Orsini riuscì a entrare in contatto con alcuni amici di Zurigo che lo aiutarono in una fuga rocambolesca da una delle più inaccessibili e sicure prigioni austriache. Dopo una breve sosta a Genova e a Zurigo si stabilì in Inghilterra dove pubblicò una prima versione delle sue memorie, Memoirs and adventures(1857), che l’anno successivo furono tradotte in italiano con sostanziali modifiche e integrazioni (Memorie politiche). Distaccatosi progressivamente da Mazzini, del quale criticava ormai, per inadeguatezza, sia i metodi sia i programmi, Orsini, rimasto convinto repubblicano, individuava in Napoleone III, garante dell’assetto dispotico europeo, il responsabile delle condizioni italiane. L’attentato contro l’imperatore, organizzato con l’aiuto di Carlo Di Rudio, Antonio Gomez e Giovanni Andrea Pieri, ebbe luogo il 14 gennaio 1858 mentre il sovrano si recava all’Opéra di Parigi. Le bombe provocarono una strage (numerosi morti e moltissimi feriti), ma lasciarono illeso Napoleone III. Arrestato, dal carcere Orsini scrisse due lettere all’imperatore nelle quali, pentito, condannava il ricorso al terrorismo e lo esortava a impegnarsi per l’indipendenza dell’Italia, al fine di garantire la pace e la sicurezza in tutta Europa. Condannato a morte, Orsini fu ghigliottinato il 13 marzo a Parigi insieme a Pieri.

Arc. 2938: Federico Campanella (Genova, 10 luglio 1804 – Firenze, 9 dicembre 1884). Federico Campanella nacque a Genova il 10 luglio 1804 da Sebastiano e da Benedetta Tassara. Si iscrisse all’Università di Genova l’11 febbraio 1822 dove per il suo acceso anticlericalismo ebbe sanzioni disciplinari e varie sospensioni. Comunque conseguì la laurea in Legge nell’estate del 1829. Amico di Giuseppe Mazzini, fu tra i fondatori, assieme ai fratelli Ruffini, del primo comitato genovese della Giovine Italia, e partecipò alla spedizione mazziniana in Savoia nel 1834. Fallito il tentativo insurrezionale, andò esule in Svizzera e poi riparò a Marsiglia presso Luigi Amedeo Melegari. Rientrato in Italia partecipò al moto milanese delle cinque giornate. Giunta la notizia dell’insurrezione di Milano, volontari genovesi formarono la Compagnia “Mazzini”; Campanella vi entrò e con essa partì per Milano dove giunse il 23 marzo 1848 dopo aver partecipato all’occupazione di Pavia. L’anno successivo fu tra i protagonisti dell’insurrezione di Genova come membro del governo provvisorio e capo di stato maggiore della Guardia Nazionale con il grado di colonnello. Repressa nel sangue dal generale La Marmora riuscì a scappare con una nave da guerra americana con Goffredo Mameli e Nino Bixio alla volta di Roma, dove come soldato semplice fu con Garibaldi alla difesa della Repubblica Romana. Al ritorno del Papa a Roma scappò ad Atene e poi a Parigi. Nel 1851 fu tra coloro che si opposero al colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte, ma alla salita al trono di quest’ultimo si rifugiò a Londra. Qui si rimise in contatto con Mazzini e si adoperò per organizzare il Partito d’Azione. Tornato in Italia al tempo della seconda guerra d’indipendenza, seguì Garibaldi nella spedizione dei Mille. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il 22 giugno 1862 fu eletto deputato al Parlamento dal Collegio di Corleto Perticara in Basilicata, ma la sua accesa fede repubblicana lo spinse a rassegnare le dimissioni da deputato nel 1863 perché la Camera aveva approvato la repressione in Sicilia. Continuò ad occuparsi di politica e fu tra i più instancabili organizzatori del partito repubblicano e del movimento massonico italiano. Nel 1868, dimessosi Garibaldi, il Grande Oriente di Palermo offrì la carica di Gran maestro a Mazzini, che rifiutò ma indicò Campanella, il quale venne eletto il 19 luglio per un triennio. In contrasto con il Grande Oriente d’Italia, filomonarchico, allora con sede a Firenze, propose di indire una costituente per riformare la Massoneria italiana, costituente che ebbe finalmente luogo nell’aprile del 1872 a Roma e che vide la riunificazione dei vari centri massonici della penisola. Campanella fu eletto Gran maestro onorario e lasciò la direzione della massoneria palermitana al nuovo Gran maestro del Grande Oriente d’Italia Giuseppe Mazzoni. Insignito del 33º grado, fu sovrano gran commendatore del Supremo Consiglio del Rito scozzese antico ed accettato di Palermo. Fotografia formato gabinetto. Fotografo: F. Ponzetti – Genova.

Arc. 2062: Carlo Poerio (Napoli, 13 ottobre 1803 – Firenze, 27 aprile 1867). Fratello di Alessandro Poerio e anch’egli esule, col padre Giuseppe, dopo i moti costituzionali del 1820, in Toscana, in Francia, nel Regno Unito. Tornato a Napoli nel 1833, si dedicò all’avvocatura, acquistando grande fama. Liberale moderato e quindi avverso ai moti mazziniani, fu tuttavia arrestato nel 1837, 1844 e 1847, ma sempre per breve tempo. Ai primi del 1848 ebbe parte notevole nelle agitazioni che portarono alla concessione della Costituzione e fu membro del governo costituzionale di Napoli, come ministro dell’istruzione. Si dimise dopo i fatti del 15 maggio, quando le tensioni fra il sovrano e il parlamento diedero origine a una controrivoluzione popolare, che egli deprecò, conservando tuttavia fiducia nella possibilità di un regime liberale con Ferdinando II di Borbone. Restaurato nel 1849 il governo assoluto, fu condannato a 24 anni di carcere duro, ma ne scontò soltanto 10 presso la torre sita in Montesarchio, perché nel 1859 la pena gli venne commutata nella deportazione. La nave che lo trasportava in America con altri 67 prigionieri (tra cui Luigi Settembrini, Sigismondo Castromediano) fu dirottata in Irlanda (dal figlio di Settembrini), da dove poi riparò in Piemonte. Qui, circondato da grande autorità morale, prese parte attiva alla vita politica del nascente Regno d’Italia, sedendo anche alla Camera dei deputati nelle legislature dalla VII alla X. Re Vittorio Emanuele II lo nominò proprio luogotenente generale dell’Italia meridionale. Poerio rifiutò il ministero offertogli da Cavour e si ritirò, deluso dalla scena politica, concludendo la sua vita in povertà. Morì a Firenze, nell’abitazione di Ferdinando Lopez Fonseca, patriota lucano e combattente durante la prima guerra di indipendenza. Poerio è sepolto in una cappella del cimitero di Pomigliano d’Arco, riconosciuta dal 1930 dal re Vittorio Emanuele III monumento nazionale. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1865 ca.

Arc. 2933: Antonio Genesio Maria Panizzi (Brescello, 16 settembre 1797 – Londra, 8 aprile 1879). Dopo aver frequentato le scuole secondarie a Reggio Emilia, nel 1814 Antonio Panizzi si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma conseguendo la laurea nel 1818. Nel 1815, nel periodo in cui Panizzi attendeva agli studi universitari, il Congresso di Vienna ripristinò il Ducato di Modena e Reggio sotto la dinastia Asburgo – Este nella persona del dispotico Francesco IV d’Este, mentre Parma venne affidata a Maria Luigia d’Austria, futura vedova di Napoleone. Dopo la laurea Panizzi aprì uno studio legale a Brescello dedicandosi nel contempo all’attività politica. Nel 1820 Francesco IV emise un decreto contro i carbonari. Sospettato di appartenere alla Carboneria, nel 1822 Antonio Panizzi lasciò clandestinamente il ducato estense per stabilirsi dapprima a Lugano e, l’anno successivo, a Londra. Qui entrò in contatto con Foscolo e, su consiglio del poeta, si trasferì a Liverpool dove divenne insegnante di italiano. Dal 1828 al 1837 fu professore di italiano all’University College di Londra. Durante questo periodo, nel 1831, iniziarono i suoi contatti con la biblioteca del British Museumdi cui nel 1856 divenne direttore generale (principal librarian). In pensione nel 1866, nel 1869 ottenne il titolo onorifico di Sir dalla regina Vittoria. Dopo l’adesione alle vendite carbonare e immediatamente dopo la fuga dal Ducato di Modena, nel 1823 Antonio Panizzi pubblicò clandestinamente a Lugano un violento atto d’accusa contro il regime estense, Dei processi e delle sentenze contra gli imputati di lesa maestà e di aderenza alle Sette proscritte negli Stati di Modena con la falsa indicazione di Madrid: per Roberto Torres, 1823. L’opera, che procurò a Panizzi una condanna a morte, fu in seguito ripudiata dall’autore ed è stata ripubblicata a cura di Giosuè Carducci col titolo Le prime vittime di Francesco 4. duca di Modena. In Inghilterra Panizzi, amico personale dei primi ministri inglesi Lord Palmerston e Lord Gladstone, divenne il rappresentante del Risorgimento italiano svolgendo un’opera importantissima nell’attirare alla causa italiana le simpatie dell’opinione pubblica e della classe dirigente inglese. Nel 1851 adottò Raffaele Settembrini, il figlio adolescente di Luigi Settembrini condannato all’ergastolo. Continuò nello stesso tempo l’attività cospirativa. Nel 1855, per esempio, acquistò una nave, The Isle of Thanet (L’Isola di Thanet), per liberare Luigi Settembrini, Carlo Poerio e gli altri prigionieri politici del Regno delle Due Sicilie relegati nell’ergastolo di Santo Stefano. L’audace impresa, che doveva essere guidata da Garibaldi, fallì per l’affondamento della nave. Sebbene avesse ottenuto la cittadinanza inglese dal 1832, per la sua opera a favore dell’Italia il 12 marzo 1868 fu nominato Senatore del Regno d’Italia. La fama di Antonio Panizzi è legata soprattutto all’attività svolta in qualità di direttore della biblioteca del British Museum. La British Museum Library era la biblioteca nazionale del Regno Unito. Durante la gestione di Panizzi divenne la più grande biblioteca nel mondo. Venne costruita la famosa Reading Room, la sala di lettura a base circolare, raddoppiò il numero di volumi posseduti dalla biblioteca, da 235 000 a 540 000, fece istituire il sistema di proprietà letteraria riservata per cui, per legge, gli editori britannici debbono consegnare alla biblioteca una copia di ogni libro stampato in Inghilterra, intraprese la creazione di un nuovo catalogo, basato sulle novantuno regole di Catalogazione da lui formulate nel 1841 e che sono alla base dell’ISBD del XXI secolo e dello standard di descrizione delle risorse in formato elettronico Dublin Core. Entrò inoltre nel dibattito culturale dell’epoca. Fu molto amico, ad esempio, di Prosper Mérimée, e di Francesco De Sanctis. Fotografia CDV. Fotografo: Disderi – Paris.
Onorificenze
Onorificenze italiane
 |
Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
Onorificenze straniere
 |
Cavaliere Commendatore dell’Ordine del Bagno (Regno Unito) |
|
|
 |
Ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia) |
|
|

Arc. 1927: Benedetto Musolino (Pizzo, 8 febbraio 1809 – Pizzo, 15 novembre 1885). Figlio di Domenico Musolino e Francesca Starace, crebbe e fu educato in una famiglia di idee liberali, nella quale il padre e lo zio erano stati costretti all’esilio per aver partecipato alla Repubblica Partenopea. Terminato il liceo, si trasferì a Napoli dove proseguì gli studi in diritto, manifestando anche inclinazione per la filosofia. Nella città partenopea ebbe modo di allacciare rapporti con Luigi Settembrini e con una schiera di intellettuali liberali, e per le sue idee subì un breve periodo di carcerazione. Trascinato dal carattere appassionato e romantico, partì quindi alla volta della Palestina e visitò anche le isole orientali del mar Mediterraneo, prima di fissare la propria dimora a Costantinopoli, ammesso alla corte del Visir di cui fu consigliere. Nel 1832, al ritorno nel Regno delle Due Sicilie, spinto dall’educazione liberale e dagli slanci passionali si dedicò all’organizzazione di un gruppo clandestino antiborbonico chiamato “I Figliuoli della Giovine Italia”; nonostante il nome che richiama Giuseppe Mazzini e il comune intento progressista e antitotalitario, le due figure si differenziarono nello spirito (la religiosità di Mazzini contrapposta all’ateismo di Musolino) e nell’organizzazione: “I Figliuoli della Giovine Italia” si configuravano infatti come una società clandestina con simboli e rituali tipici delle sette segrete. Nel 1839, tradito da informatori borbonici, Musolino fu catturato assieme a un gruppo di patrioti: il fratello Pasquale, Settembrini, Raffaele Anastasio e Saverio Bianchi. Dopo avere scontato più di tre anni di detenzione e poi confinato a Pizzo, assieme al nipote Giovanni Nicotera, a Felice Sacchi ed Eugenio De Riso esercitò clandestinamente nel paese un’attività segreta alla Polizia per porre le basi dei moti rivoluzionari, e nell’aprile del 1848 – anno in cui sulla scorta dei moti di Palermo Ferdinando II si vide costretto a promulgare la Costituzione – venne eletto deputato al Parlamento napoletano nella circoscrizione di Monteleone. Quando la Camera venne sciolta d’autorità, Musolino e altri parlamentari calabresi, al seguito di Giuseppe Ricciardi – e dopo che Cosenza era diventata sede del governo provvisorio –, organizzarono una resistenza armata collegata con i moti del Cilento e della Sicilia. Le forze regie ebbero però il sopravvento e soffocarono l’insurrezione nel sangue: devastarono il paese di Pizzo, fucilarono un fratello di Musolino e dettero fuoco al palazzo di famiglia; il padre venne assassinato e poco tempo dopo la madre, l’altro fratello e la cognata morirono di crepacuore. Insieme al nipote Giovanni, Musolino riparò prima a Corfù e poi a Roma. Qui partecipò ai moti della Repubblica Romana ma dopo la sua caduta fu costretto a fuggire, questa volta in Francia, inseguito dalla condanna a morte che gli era stata inflitta in contumacia dai tribunali borbonici. Nel Paese transalpino visse anni di stenti, non rinunziando da un lato alla militanza nelle file della democrazia radicale e dall’altro al ripensamento delle esperienze rivoluzionarie. Venne a maturazione la divergenza con le strategie mazziniane, che Musolino valutò inadeguate alle circostanze, giudizio confermato dal fallimento della Spedizione di Sapri naufragata nel 1857. Elaborò una forma di Stato basato sulla lotta alle disuguaglianze, su un’equa redistribuzione del reddito e sul superamento di regimi di prepotenze e privilegi. In seguito partecipò attivamente alla Spedizione dei Mille, unendosi in Sicilia all’esercito di Giuseppe Garibaldi. Con un drappello di soldati scelti tentò la conquista del forte di Reggio Calabria, ma il fallimento dell’operazione lo indusse a riparare sull’altopiano silano; continuò attivamente e con successo a farsi promotore dell’attività insurrezionale in Calabria, dando il proprio nome a una compagnia di volontari da lui organizzata. Il coronamento del suo attivismo fu la sua nomina, nel 1861, a membro del primo Parlamento italiano, carica che ricoprì per quasi vent’anni (successivamente passò al Senato) collocandosi fra le schiere della sinistra storica che faceva capo ad Agostino Depretis e a Francesco Crispi, e non facendo mancare il suo apporto costruttivo in favore delle fasce più povere della popolazione italiana, anche se il settore in cui maggiormente si impegnò fu quello della politica estera. Pizzo lo accolse nel 1883, quando stanco e ammalato cercò rifugio nel paese natale dove morì dopo due anni. Fotografia CDV. Fotografo: Muller. 1865 ca.
Onorificenze
 |
Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia |
|
|
 |
Medaglia commemorativa delle campagne delle Guerre d’Indipendenza (3 barrette) |
|
|
 |
Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia |

Arc. 2571: Gustavo Modena (Venezia, 13 gennaio 1803 – Torino, 20 febbraio 1861). Conosciuto per la sua recitazione assolutamente naturale, era figlio d’arte. Nacque infatti da Giacomo Modena, di Mori, di professione sarto, e da Maria Luisa Lancetti, attrice. Iniziò a recitare sotto la guida del padre. Laureatosi in giurisprudenza a Bologna nel 1821, preferì rinunciare alla carriera forense privilegiando l’attività di attore teatrale. Maestro di Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi, debuttò in teatro nel 1824 recitando il ruolo di David nella tragedia Saul di Vittorio Alfieri. Rimase fortemente scosso dai tumulti del 1821 e in uno scontro con la polizia rimase gravemente ferito. Radicato nella sua fede patriottica, partecipò ai moti risorgimentali del 1831 e aderì alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. In conseguenza del suo impegno politico al pari di Mazzini fu costretto, con la moglie ginevrina Giulia Calame, a riparare in esilio, dapprima in Svizzera e Belgio (Bruges), quindi in Inghilterra dove si trovò a svolgere i più svariati mestieri. A Londra ebbe modo comunque di suscitare ammirazione per l’abilità declamatoria dei versi della Divina Commedia. Nel 1839, fatto ritorno nel Regno Lombardo-Veneto, costituì una propria compagnia con cui iniziò una tournée di sette anni in diversi stati della futura Italia ai quali gli era consentito di accedere. Terminata la tournée si dedicò prettamente alla politica limitando l’attività teatrale. Dopo le sconfitte del 1848–1849, si ritirò in Piemonte. Visse anche in Liguria. Gustavo Modena fece parte della Massoneria, ed in suo onore fu intitolata un’importante loggia della capitale, nell’obbedienza di Piazza del Gesù. Fotografia CDV. Fotografo: F.lli Alinari – Firenze. 1860 ca.

Arc. 2571: Carlo Zucchi (Reggio nell’Emilia, 10 marzo 1777 – Reggio nell’Emilia, 19 dicembre 1863). Soldato di Napoleone (che per i suoi meriti gli conferì il titolo di barone dell’Impero) dal 1796, veterano della invasione degli Stati Pontifici, di Corfù, di Novi Ligure (terribile battaglia che, a suo dire, «costò ventisette mila vite») e la traversata del San Bernardo, del Tirolo, di Dalmazia, del Sacile e del Piave, del Tarvisio, di Raab, di Presburgo, di nuovo del Tirolo, di Wiener Neustadt, di Lützen e Bautzen e Lipsia. Capitano aiutante maggiore nel 1800, capo battaglione nel 1805, tenente colonnello nel 1807, legion d’onore e poi generale di brigata nel 1809, governatore militare a Verona, Cremona, Padova, Ispettore Generale di tutta la fanteria del Regno nel 1811 e 1812, governatore della fortezza di Mantova e comandante l’ala destra dell’esercito del Beauharnais alla battaglia del Mincio, la grande battaglia con la quale l’esercito italiano negò agli Imperiali del feldmaresciallo Bellegarde la Lombardia. Il 3 febbraio 1831 il duca di Modena, Francesco IV, fece arrestare il patriota Ciro Menotti; a Modena scoppiava l’insurrezione, mentre a Reggio Emilia si organizzava un corpo di truppe al comando del generale Carlo Zucchi, che assumeva la guida del governo provvisorio il 7 marzo. Gli 800 volontari del generale Zucchi (tra i quali si distinse Manfredo Fanti) impegnarono duramente gli austriaci: memorabile fu la battaglia delle Celle combattimento di retroguardia a Rimini (25 marzo). Essi ripiegarono poi indisturbati, insieme ai circa 6.000 uomini mobilitati nei territori ribelli, sulla fortezza di Ancona, ove la rivoluzione si spense alcuni giorni più tardi. Ad Ancona, infatti, il 28 marzo Zucchi fu costretto ad imbarcarsi per la Francia, insieme ad un centinaio di altri rivoluzionari, tentando di mettersi in salvo; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne catturato dall’allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco Bandiera, padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio, e tutti i rivoluzionari furono arrestati. Il 4 giugno 1832 una commissione militare austriaca condannò Zucchi alla pena di morte, poi commutata in venti anni di carcere duro in fortezza a seguito dell’intervento della corte francese. I fatti del 1848 lo trovano ancora prigioniero nella fortezza di Palmanova, della quale assume il comando e dalla quale respinge l’assedio imperiale con circa 1.440 combattenti tra regolari e volontari. Nell’ottobre-novembre 1848 fu l’ultimo ministro delle Armi di Pio IX da sovrano costituzionale. Trascorse gli ultimi anni di vita nella sua città natale, impegnato a scrivere le sue memorie. Massone, fu membro attivo della Loggia “Reale Augusta” di Milano, del Grande Oriente di Francia, poi passata nel 1806 al Grande Oriente d’Italia. Fotografia CDV. Fotografo: Montabone – Torino. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|
 |
Ufficiale della Legion d’onore |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine della Corona Ferrea |
|
|
 |
Medaglia di Sant’Elena |
|
|

Arc. 2116: Aleardo Aleardi, nato Gaetano Maria Aleardi (Verona, 14 novembre 1812 – Verona, 17 luglio 1878). Dopo aver studiato legge all’Università di Padova insieme con gli amici Giovanni Prati e Arnaldo Fusinato, ritornò a Verona, interessandosi di poesia e di critica d’arte. Il primo successo è raggiunto nel 1846 con le due Lettere a Maria, in versi sciolti, nel quale il poeta si rivolge a un’amica proponendole un amore platonico: è un’occasione per manifestare la sua fede nell’immortalità dell’anima ed effondere i suoi affetti sentimentali nello spirito di un romanticismo di maniera. Assiduo frequentatore del salotto della contessa Anna Serego Gozzadini Alighieri, ne corteggiò la figlia Nina, dedicandole numerose composizioni poetiche. Ai moti risorgimentali del 1848, fu inviato a Parigi da Manin a chiedervi aiuti per la ricostituita Repubblica Veneta. Fu arrestato nel 1852 e rinchiuso per qualche mese nella fortezza di Mantova: ne seguì un periodo di depressione e, nel 1855, l’idillio Raffaello e la Fornarina, dove la leziosità del componimento è tale da raggiungere il cattivo gusto. L’Aleardi diede il meglio di sé rielaborando alcuni canti e pubblicando nel 1856 sia Il Monte Circello, che comprende un componimento famoso sulla vicenda di Corradino di Svevia, a lungo presente nelle antologie scolastiche, che Le antiche città marinare e commerciali, e nel 1857 le Prime storie, con immagini ispirate a vicende bibliche. La pubblicazione dei Canti patrii fu invece rinviata a causa dell’arresto, avvenuto nel giugno del 1859, e della detenzione nel castello di Josephstadt, in Boemia, in conseguenza della guerra austro-franco-piemontese. Liberato alla fine della guerra, fu deputato del Regno di Sardegna nel 1860. Si stabilì a Brescia, pubblicando gli ultimi versi, tutti d’ispirazione politica: I sette soldati del 1861, il Canto politico del 1862 e I fuochi sull’Appennino del 1864, anno in cui si trasferisce a Firenze per tenervi all’Istituto d’Arte la cattedra di estetica. Già deputato, fu nominato senatore nel 1873: onorato e ricercato nei salotti, come poeta era ormai un sopravvissuto e morì improvvisamente a Verona nel 1878. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1865 ca.
Onorificenze
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia |
|
|
 |
Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia |
|
|
 |
Commendatore dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |

Arc. 2116: Tullio Dandolo (Varese, 2 settembre 1801 – Urbino, 16 aprile 1870). Dandolo nacque a Varese il 2 settembre 1801 da Mariana Grossi e dallo scienziato e patriota Vincenzo Dandolo (1758-1819). Questi, nel 1797, era esponente della Municipalità provvisoria di Venezia, ma dopo il trattato di Campoformio, con il quale si sancì la fine della Repubblica, dovette esulare in Francia. Venne in seguito nominato da Napoleone senatore del Regno italico e conte. Dal 1806 al 1809 fu anche governatore civile della Dalmazia. Il piccolo Tullio passò quindi un’infanzia assai agitata; fu cresciuto da una “cameriera disattenta” e poi sballottato per vari collegi. A 19 anni si laureò all’Università di Pavia in diritto civile e canonico. Dopo la morte del padre nel 1819, passò alcuni anni (dal 1821 al ’23) girando per l’Europa e conducendo una vita mondana. In questo periodo venne a contatto con illustri personalità culturali politiche dell’epoca. Venne sospettato dal governo austriaco di aver partecipato alle congiure degli anni precedenti, e per questo fatto rientrare in modo coatto in Italia (senza tuttavia essere perseguitato). In Italia, dopo essersi dedicato ampiamente a studi letterari e storici, sposò Giulietta, sorella di Gaetano Bargnani; uno dei futuri cospiratori mazziniani. Dalla moglie ebbe due figli, Enrico ed Emilio. Nel 1835 rimase vedovo e affidò ad un amico di famiglia i figli, pur intervenendo continuamente nella loro formazione. Nel 1844 si sposò in seconde nozze con la contessa Ermellina Maselli, da cui ebbe altri due figli, Maria (1848-1871) e Enrico II (1850-1904). I primi due, Enrico ed Emilio presero parte alle Cinque giornate e ad altre operazioni belliche e lo stesso Tullio fu nel ’48 uno dei principali autori della rivoluzione e capo della rivolta varesina di marzo (scoppiata in concomitanza con quella di Milano), ma nel ’49 a Roma, durante la difesa della repubblica di Mazzini, Enrico morì ed Emilio rimase gravemente ferito. Questo evento toccò molto Tullio che tuttavia, pur dovendosi prendere cure molto onerose del superstite, avrebbe continuato comunque i suoi studi letterari. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1865 ca.

Arc. 2209: Ferdinando Bartolommei (Firenze, 10 marzo 1821 – Firenze, 15 giugno 1869). Nel biennio 1847-1848 fu tra i politici toscani più attivi, sperando che il granduca Leopoldo II di Lorena concedesse la libertà di stampa e di azione, cosa che invece non avvenne. Entrò in collisione con Francesco Domenico Guerrazzi e la sua “dittatura” durante il periodo di breve indipendenza che seguì la fuga del Granduca. Scongiurato un rientro appoggiato dall’esercito austriaco, Leopoldo tornò a Firenze e il Bartolommei partì in esilio volontario nel luglio del 1850. Si dedicò allora a preparare la “rivoluzione” senza spargimento di sangue, tessendo dal suo palazzo fiorentino in via Lambertesca (dove oggi lo ricorda una lapide) tutta una serie di relazioni clandestine con Camillo Cavour, Giuseppe La Farina e altri, che lo misero più volte in pericolo. Alla fine le sue iniziative vennero coronate dal successo che portò all’uscita di scena del Granduca da Firenze, il 27 aprile 1859. Lo stesso anno venne nominato sindaco di Firenze, fino al 1863. Nel frattempo la Toscana si era unita su consultazione popolare al Regno d’Italia e nel 1862 il Bartolommei era stato nominato senatore. Fotografia CDV montata su cartoncino. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.
Onorificenze
 |
Grand’Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro |
|
|

Arc. 3147: Francesco Maria Serra ( Uta, 22 luglio 1804 – Cagliari, 27 agosto 1884). E’ ricordato ancora oggi per una fulgida carriera politica che lo vide deputato del Regno di Sardegna e senatore del Regno d’Italia. Nato in una famiglia aristocratica, il Conte Serra si laureò in giurisprudenza presso l’Università di Cagliari e sposò ancor giovane Efisia Notter, anch’essa nobile, dalla quale ebbe quattro figli: Michele, sostituto procuratore generale, Marianna, Giacomo che intraprese la carriera militare e Ignazio che divenne consigliere della Corte d’appello. Serra stesso ricoprì varie cariche: fu avvocato fiscale, Presidente della Corte d’appello di Cagliari, Primo presidente onorario della Corte di cassazione e Presidente del Consiglio divisionale del capoluogo sardo dal 1849 al 1857. Dal 1848 al 1861 fu deputato del Regno di Sardegna nelle legislature I, III, IV, V, VII e VIII nelle file della Destra; il 31 agosto 1861 fu nominato senatore del Regno d’Italia, istituzione di cui fu anche Vicepresidente dal 6 novembre 1873 al 21 febbraio 1876. Nel corso della sua vita ricevette varie onorificenze: Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia e Medaglia mauriziana al merito militare di dieci lustri. Si spense a Cagliari il 27 agosto 1884. Fotografia CDV. Fotografo: Conjugi Mazzocca – Torino.

Arc. 2770: Tommaso Gherardi del Testa (Terricciola, 30 agosto 1818 – Pistoia, 12 ottobre 1881). Nobile di nascita, figlio di un cavaliere e ufficiale napoleonico, compì gli studi presso l’Università di Pisa e successivamente conseguì l’avvocatura a Firenze, esercitando la professione di avvocato penalista. Quando era ancora studente, cominciò a scrivere racconti e commedie, sospinto per l’ammirazione per Walter Scott e Carlo Goldoni. Esordì nel 1844 con Una folle ambizione riscuotendo un buon successo di pubblico e di critica. Nel 1848 partecipò alla prima guerra d’indipendenza combattendo nella Battaglia di Curtatone e Montanara, dove cadde prigioniero degli Austriaci. Una volta rientrato in patria, non gradì la restaurazione dei Lorena, al punto da isolarsi spesso nel suo castello di Terricciola. Svolse l’attività di giornalista parallelamente a quella letteraria, collaborando con La Settimana illustrata, La Vedetta e La Speranza. Scrisse romanzi, poesie, ma soprattutto commedie, che gli diedero la fama. Il suo esordio risalì al 1844 con Una folle ambizione e la sua carriera si concluse con La carità pelosa del 1879. Ricevette quattro volte il premio governativo con i lavori Le due sorelle (1854), L’egoista e l’uomo di cuore (1860), Il vero blasone (1863), La vita nuova (1873). Nel 1856 ottenne la medaglia d’oro come miglior autore drammatico nello Stato Pontificio con il lavoro intitolato Il padiglione delle mortelle. Si mise in evidenza anche per alcuni lavori per la maschera di Stenterello. Si può considerare come uno dei commediografi del suo tempo più amati dal pubblico, e si caratterizzò per l’ironia con la quale riprese e riaggiornò alcuni elementi tradizionali del teatro del Settecento, legandoli a tematiche sociali a lui contemporanee. Fotografia CDV. Fotografo: A. Batelli – Firenze. 1860 ca.

Arc. 2937: Guglielmo Oberdan, nato Wilhelm Oberdank (Trieste, 1º febbraio 1858 – Trieste, 20 dicembre 1882). Era figlio illegittimo della domestica slovena Josepha Maria Oberdank, nata a Gorizia da una famiglia originaria di Sambasso (oggi Šempas in Slovenia), e di Valentino Falcier, fornaio di Noventa di Piave, che si era poi arruolato nell’Imperial regio Esercito austro-ungarico. Non fu riconosciuto dal padre naturale e venne registrato all’anagrafe come Wilhelm Oberdank (Oberdan è un’italianizzazione che adottò successivamente). A quattro anni dalla sua nascita la madre si risposò con Francesco Ferencich, capofacchino del porto di Trieste, dal quale ebbe altri quattro figli. Il patrigno instaurò con il giovane Oberdan dei buoni rapporti e tentò di legittimarlo iscrivendolo con il proprio cognome al censimento del 1865 e alle scuole elementari. Nonostante le umili condizioni della famiglia, Oberdan riuscì a continuare gli studi presso la civica scuola reale superiore di Trieste. Il suo comportamento gli costò la bocciatura già in prima classe, ma in seguito studiò con maggiore diligenza e nel 1877 conseguì ottimamente la maturità tecnica. In questi anni iniziò a leggere molto e fu influenzato specialmente da Giuseppe Mazzini e Francesco Domenico Guerrazzi. Nel frattempo, pur giovanissimo e di modeste origini, prese a frequentare vari salotti letterari e politici di Trieste ed entrò in contatto con personalità quali Adolfo Liebman, Vitale Laudi, Gregorio Draghicchio, Riccardo Zampieri e Domenico Giovanni Battista Delfino. Nel 1877, grazie ad una borsa di studio elargita dal comune di Trieste, poté iscriversi al Politecnico di Vienna; trovò alloggio a poco prezzo nella casa di una vedova presso Luisengasse su Wieden. Ben presto divenne una figura di guida tra gli studenti italiani, e durante una festa organizzata da alcuni studenti polacchi, dichiarò la Polonia “quale sorella dell’Italia nella sfortuna”. Nel marzo dell’anno seguente, però, avendo l’Austria proclamato la mobilitazione per occupare militarmente la Bosnia ed Erzegovina come deciso nel Congresso di Berlino, ricevette la chiamata alle armi e dovette interrompere gli studi. Fu assegnato al 22º reggimento di fanteria “Freiherr von Weber”. Contrario all’occupazione dei territori bosniaci sanciti dal Congresso di Berlino, decise di disertare. Venne aiutato nella fuga dall’irredentista socialista Carlo Ucekar e la notte tra il 16 e il 17 luglio 1878 abbandonò Vienna per trasferirsi a Roma, dove frequentò i movimenti degli ex garibaldini e quelli irredentisti; poté anche iscriversi all’università per completare gli studi in ingegneria. L’ultimo anno fu però costretto ad interromperli poiché, a causa di alcune sue opinioni, il sussidio assegnatogli dallo stato italiano gli venne revocato. Da lì in poi dovette iniziare a darsi da fare per vivere, disegnando per alcuni studi d’ingegneria e traducendo dal tedesco all’italiano per alcuni giornali. Nella sua piccola stanza a Trastevere aveva appesi due ritratti: quello di Gesù e quello di Giuseppe Garibaldi. Mentre leggeva opere del filosofo inglese John Stuart Mill, s’impegnava sempre più all’interno dei movimenti attivisti.Nel luglio 1879 Oberdan ricevette a Roma un bacio sulla fronte dall’uomo che più ammirava, Giuseppe Garibaldi. Alla morte di Garibaldi, avvenuta nel 1882, Oberdan marciò dietro al carro funebre con la bandiera di Trieste al collo per dimostrare il suo lutto. Nel luglio 1882 Oberdan incontrò Matteo Renato Imbriani, leader del movimento irredentista e cofondatore dell’associazione “Italia irredenta”. Qui Oberdan prese la decisione che Trieste potesse essere separata dal dominio austriaco-ungarico solo grazie al suo stesso martirio. Lo scoraggiamento degli esuli che avevano riposto in Garibaldi le loro speranze spinse Oberdan a organizzare un attentato, assieme ad altri irredentisti (tra cui l’istriano Donato Ragosa, con cui si era sempre mantenuto in contatto), contro l’imperatore Francesco Giuseppe in visita a Trieste in occasione dei 500 anni di dedizione della città all’Austria, la “fidelissima”, titolo assegnatole dalla monarchia asburgica per essersi astenuta dalle rivoluzioni del 1848. Oberdan cercò di trasportare da Roma a Trieste due bombe all’Orsini; giunse assieme a Ragosa nella località di Ronchi di Monfalcone (oggi “dei Legionari”), ma venne arrestato, dopo che aveva sparato malamente a un gendarme trentino, in seguito alla segnalazione di un messo comunale che notò il suo ingresso clandestino in territorio austriaco nei pressi di Versa. Durante il primo interrogatorio si dichiarò come Rossi ma, in seguito, davanti al giudice distrettuale Dandini, confessò il suo intento di voler attraversare il confine per recarsi con le due bombe a Trieste. Non essendo lui contento dell’arresto, in quanto voleva essere immolato, si autoaccusò. Il 20 ottobre 1882, davanti all’imperial-regio tribunale della guarnigione di Trieste, Oberdan venne condannato a morte per impiccagione dalla giustizia austriaca per alto tradimento, diserzione in tempo di pace, resistenza violenta all’arresto e cospirazione, avendo confessato le intenzioni di attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe. Vi furono appelli alla grazia da tutto il mondo intellettuale dell’epoca, tra cui lo scrittore francese Victor Hugo e anche la madre del giovane chiese clemenza. Nonostante ciò, il 4 novembre la condanna venne confermata e solo all’alba del 20 dicembre venne impiccato nel cortile interno della caserma grande di Trieste. La caserma dove avvenne l’esecuzione, divenuta poi piazza Oberdan Mentre il boia viennese Heinrich Willenbacher, gli metteva il cappio al collo, secondo un rapporto ufficiale Oberdan esclamò: “Viva l’Italia, viva Trieste libera, fuori lo straniero!”. Immediatamente dopo la sua morte Oberdan fu elevato al rango di martire. In conseguenza di ciò aumentarono le adesioni al movimento irredentista e la lotta contro la supremazia austriaca raggiunse il suo picco. Giosuè Carducci scrisse un aspro articolo intitolato semplicemente XXI decembre, nel giornale Don Chichotte di Bologna il 22 dicembre 1882, contro l’imperatore austriaco, definendolo «imperatore degli impiccati» e concludendo: «Riprendemmo Roma dal Papa, riprenderemo Trieste dall’Imperatore». Dopo la sua morte sorsero in Italia e in Austria quarantanove Associazioni Oberdan, le quali diffusero l’ideale irredentista: queste formazioni ebbero scarso appoggio nel Regno, soprattutto dal governo di Francesco Crispi che guardava più alle imprese coloniali che a quelle irredentiste. La prima commemorazione pubblica di Oberdan avvenne il 20 dicembre 1918 nel cortile della caserma che sarà ribattezzata Caserma Oberdan; quando questa verrà demolita si conserveranno la cella e l’anticella dove fu rinchiuso, che verranno successivamente incorporate nei portici della Casa del Combattente, attualmente sede del Museo del Risorgimento. Guglielmo Oberdan fece parte della Massoneria. Durante la prima guerra mondiale, la propaganda nazionalista italiana fece tesoro della storia di Oberdan al fine di svegliare il consenso nazionale nella popolazione italiana. Oberdan verrà sepolto nel cimitero Sant’Anna a Trieste, ma non è più possibile identificare i suoi resti poiché sono andati perduti. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto.

Arc. 1308: Jacques Alexandre Bixio (Chiavari, 20 novembre 1808 – Parigi, 16 dicembre 1865). Uomo politico e pubblicista scientifico, fratello di Nino; dopo la laurea in medicina si stabilì in Francia, partecipò attivamente alla rivoluzione del 1830 e del 1848 e in genere alla vita politica francese. Fu deputato del Parlamento francese e, per breve tempo, ministro dell’agricoltura e del Commercio. Fondò con J.-A. Barral il Journal d’agriculture pratique (1837). Grazie a lui il fratello Nino conobbe, a Parigi, Giuseppe Mazzini che lo spinse ad aderire alla Giovine Italia. Il suo nome è legato, con quello del Barral, a due avventurose ascensioni aerostatiche a carattere scientifico (29 giugno e 27 luglio 1850). Dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851 si ritirò a vita privata. Fotografia CDV. Fotografo: A. Sorgato – Venezia.

Arc. 1864: Maurizio Bixio e la moglie (1826-1906). Figlio di Alexandre e nipote di Nino, nel 1859, uscito dalla Scuola militare d’Ivrea col grado di luogotenente, fu ufficiale d’ordinanza del Re, e poi addetto allo Stato maggiore del La Marmora a Napoli nel 1860. Ritornò in Francia alla morte del padre, nel 1863 e fu Sindaco di Parigi dal 1871 al 1877. Fotografia CDV. Fotografo: Bayard & Bertall – Paris.

Arc. 2207: Luigi Kossuth, all’anagrafe come Lajos Kossuth (Monok, 19 settembre 1802 – Torino, 20 marzo 1894). Fu a capo dell’ala democratico-radicale dei nazionalisti ungheresi che attuò l’indipendenza dell’Ungheria dall’Impero austriaco durante i moti del 1848 e che durò fino all’agosto del 1849, quando la giovane repubblica ungherese fu invasa da 250.000 russi. Fu condannato (1837) a quattro anni per la pubblicazione, vietata dal governo, di resoconti parlamentari; amnistiato nel 1840, fondò l’anno seguente il giornale Pesti Hirlap che ebbe notevole successo ma vita breve. Eletto deputato (1847), quando (1848) scoppiò la rivoluzione si recò, a capo di una delegazione, a Vienna a chiedere ampie riforme; concessa all’Ungheria la costituzione, fu ministro delle Finanze nel gabinetto Batthyány. Le leggi (1848) per l’annessione della Transilvania e della Croazia e per l’introduzione dell’ungherese come lingua ufficiale gli sollevarono contro Croati e Romeni: su questo giocò la politica di Vienna, che, dopo Custoza, dichiarò sciolto il parlamento e nominò luogotenente il bano di Croazia J. Jelačić. Con l’abdicazione dell’imperatore Ferdinando I a favore di Francesco Giuseppe, non riconosciuto dai Magiari, avvenne la rottura completa con Vienna; mentre Budapest veniva occupata da A. Windisch-Graetz e Jelačić, da Debrecen Kossuth fece proclamare dall’Assemblea (1849) l’indipendenza dell’Ungheria e la decadenza degli Asburgo, difendendo il proprio paese con l’aiuto di legioni polacche e di volontarî italiani; ma lo zar Nicola I, nel timore di vedere estesa l’insurrezione alla Polonia, si decise all’intervento armato, che stroncò la rivoluzione. K. si rifugiò in Turchia, dove fu internato. Liberato (1851), si recò a Londra, poi in America, in Francia, in Italia. Capo dell’emigrazione politica magiara, K. cercò con la propaganda e l’attività di agenti (G. Klapka, L. Teleki, ecc.) di collegare la questione magiara a quella dell’indipendenza e unità italiane (oltre che polacche), appoggiandosi alla Francia di Napoleone III, contro l’Austria; così (1859) promosse una legione ungherese che, dall’Italia, doveva dirigersi verso l’Ungheria; continuò ad avere contatti con Garibaldi per progetti di sbarchi sulla costa dalmata; dal suo ambiente uscì un progetto di confederazione danubiano-balcanica (1862) mirante a convogliare contro l’Austria tutti i popoli gravitanti intorno al Danubio. Poi si stabilì a Torino e qui fu attivo nel preparare progetti di sbarchi e relative insurrezioni – dalla Dalmazia, alla Croazia, all’Ungheria – d’accordo con la diplomazia italiana, col croato I. I. Tkalac e, infine, con Bismarck. Fotografia CDV. Fotografo: Sconosciuto. 1860 ca.

Arc. 2399: Legione Ungherese: Colonnello Jhasz Daniel comandante la 1^ Brigata della Legione Ungherese. Fotografia CDV. Fotografo: H. Le Lieure – Torino. 1870 ca.

Arc. 2925: Legione Ungherese: Ufficiale in gran montura. Fotografia CDV. Fotografo: Guidi e Comp. – Firenze.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...